Se non si conosce l’analisi logica non si capiscono democrazia e pandemia

C’è un libro che, letto in controluce, spiega molte cose che stanno accadendo attorno a noi, dal primato di Mario Draghi nella democrazia italiana al nostro smarrimento di fronte all’ennesimo assedio della pandemia, fino alla ostinata resistenza dei no vax. L’hanno scritto Luca Ricolfi e Paola Mastrocola e s’intitola «Il danno scolastico», anche se potrebbe chiamarsi «Elogio dell’analisi logica». La sua tesi è che la scuola e la cultura hanno irresponsabilmente disdetto le basi della conoscenza, sostituendole con competenze e abilità, volte alla soluzione di problemi pratici, in nome di un’istruzione non più selettiva ma egualitaria e facilitata. L’effetto è stato un’eterogenesi dei fini: la scuola senza qualità è una macchina che genera diseguaglianza, favorisce i ricchi, privilegiati nel loro contesto familiare e sociale, e toglie ai figli dei ceti medio bassi l’unica vera arma con cui potrebbero competere con i primi: una conoscenza robusta.

Confesso di aver provato, di fronte a questa diagnosi, una consolazione, appartenendo a una generazione che ancora sentiva sui banchi delle elementari l’orgoglio di individuare la sfumatura logica tra un complemento predicativo del soggetto e un complemento di modo. Una simile distinzione, spiegano i due autori, è uno degli architravi del sapere di base, su cui poggiare tutte le conoscenze successive e le abilità che da queste si sviluppano. Mi piace aggiungere che quella distinzione partoriva due virtù, speculari e sovrapposte, che oggi paiono le grandi assenti nella cultura civile del Paese: l’esattezza, come corrispondenza ontologica tra il significato dei concetti e la realtà dei fatti e dei fenomeni; e il senso del limite, come coscienza della finitezza e della relatività di ciò che con le parole si riconosce e si rivendica, e prima di tutto i desideri e i diritti. 

L’analisi logica ha insegnato a chi scrive che le due virtù non sono alternative, ma stanno in una tensione dialettica. Per preservare il loro equilibrio, bisogna perseguire l’esattezza avendo coscienza del limite, cioè dell’approssimazione dei mezzi di cui si dispone. Dentro questo paradigma scienza e umanesimo sono parti di uno stesso sapere. Non a caso, se conosci le leggi profonde che regolano il rapporto tra soggetti, predicati e complementi, puoi leggere, senza avere alcuna competenza specifica, una ricerca medica o piuttosto un libro di filosofia ed estrarne il senso. 

Ma se l’equilibrio tra le due virtù si spezza, l’esattezza si traduce nell’ostinazione ideologica e la misura del limite s’interiorizza, debordando in un soggettivismo che finisce per ignorare la realtà. Esiste un nesso tra quest’approdo e il modo di reagire a ciò che accade nel presente. Con una metafora, potremmo dire che, senza il soccorso dell’analisi logica, diventa impossibile comprendere perché sia giusto e doveroso somministrarsi un vaccino che non protegge in maniera sicura dal covid. Si fa più fatica ad accettare che una strategia sanitaria possa essere, al tempo stesso, indispensabile e tuttavia parziale. Nella tendenza della coscienza contemporanea a sconfinare nell’ideologia, l’idea di un rimedio non totalitario, ma circoscritto, è inaccettabile. Allo stesso modo lo è per l’assenza di senso del limite, e per la inconscia illusione che tutto sia possibile. Un vaccino che non estirpa il nemico, ma al più ci offre una trincea dietro cui difenderci, è un insostenibile dazio alla libertà, quando questa è percepita come arbitrio inconsapevole.

La confusione diventa totale nelle ore in cui scopriamo che una variante del virus è in grado di bucare la rete di immunità dei vaccini che, con una corsa contro il tempo, ci siamo inoculati. Su questa frontiera del dubbio cosmico stiamo in queste ore. Soli e, ci sia consentita la provocazione, senza il soccorso dell’analisi logica, bombardati da una propaganda sanitaria che, anche quando non raggiunge le vette caricaturali dei tre virologi-tenori, percepiamo come una litania priva di senso, prima che di significato.   

Si obietterà che lo smarrimento maggiore è cresciuto con vigore anche in un’area filosofica e intellettuale che certamente non è priva dei fondamenti tradizionali del sapere. E tuttavia, a ben guardare, è facile rinvenire nel racconto distopico dei Cacciari, degli Agamben e dei Lottieri, per citare solo tre grandi voci del dissenso sanitario, la dismissione inconsapevole delle virtù qui considerate, che segna il contemporaneo.

Una sconnessione logica affligge tutto il discorso pubblico. Competenti e ignoranti paiono allo stesso modo disarmati di fronte a una catastrofe globale, che rovescia i paradigmi ordinari della razionalità. A entrambi sfugge quel punto di sintesi in cui l’anelito all’esattezza e il senso del limite possono trovare una breccia nell’implausibilità con cui il reale ci appare di questi tempi. In quest’inciampo cadono cittadini comuni e intellettuali, rappresentati e rappresentanti. Si aggiunga il fatto che la pandemia è intervenuta in una stagione avanzata e per certi versi senile della democrazia, e in coincidenza con quella che potremmo definire la cronicizzazione del populismo. Una fase in cui l’utopia antisistema ha già ampiamente fallito il tentativo di surrogare il potere rappresentativo, ma si è insinuata negli estenuati processi di questo sotto forma di una demagogia strisciante. Che va ben oltre il perimetro dei partiti e dei leader che se la intestano, per diventare uno slittamento inconsapevole del pensiero, comune tanto ai cittadini quanto ai detentori della delega.

Se in questo scenario Mario Draghi vince facile, è perché appare il marziano disceso da un pianeta sconosciuto sulla democrazia italiana, con l’alchemica formula della proporzione perfetta tra le due virtù qui considerate. Non ha mai, in questi dieci mesi di governo, fatto sfoggio di una sua competenza, tanto nelle relazioni con il Palazzo quanto nel rapporto con la stampa, e con i cittadini. Anzi, spesso ha ammesso una certa socratica ignoranza. Ma della giusta misura tra anelito all’esattezza e senso del limite ha fatto la cifra di un magistero. 

Ora, per stare al gioco, non sappiamo quanta analisi logica Mario Draghi abbia studiato e appreso negli anni della sua formazione scolastica presso i gesuiti dell’istituto Massimo di Roma. Ma possiamo azzardare che questo esercizio non gli sia mancato. È la sua distanza, tanto dai luoghi comuni del corrente analfabetismo, quanto dall’algida razionalità del sapere specialistico, che ne fa il più politico, se non l’unico in questo momento, tra i politici che a vario titolo si contendono il potere. Draghi pare la prova che una granitica formazione di base, forgiata dall’esperienza, coincida con le virtù indicate da Max Weber nella sua celebre conferenza “La politica come professione”: l’anelito all’esattezza altro non è che la congruenza del comportamento rispetto ai valori, che il grande sociologo tedesco chiama “etica della convinzione”; il senso del limite invece rappresenta la corretta valutazione delle scelte rispetto ai fini, che fonda la cosiddetta “etica della responsabilità”.

A questo punto ci sarebbe da aspettarsi che il recuperato senso del politico figliasse nel Palazzo, rigenerando i partiti. Ma a scoraggiare una simile prospettiva è quel fenomeno che Ricolfi e Mastrocola indicano come l’handicap dei gattini ciechi. Si riferiscono ad alcuni esperimenti compiuti negli anni sessanta e raccontati da Jean Pierre Changeux nel libro “L’uomo neuronale”. Ai felini appena nati viene cucita una palpebra, bloccando così l’afflusso di informazioni del mondo esterno in direzione dell’occhio artificialmente chiuso. Dopo tre settimane la palpebra viene liberata, i gattini tornano ad aprirla, ma da quell’occhio non vedranno mai più nulla. Perché il loro apparato visivo non ha avuto l’opportunità di svilupparsi al momento giusto, ossia in quell’unico periodo, le prime tre settimane di vita, in cui il sistema nervoso che presiede alla visione è programmato per strutturarsi. Applicata al destino degli studenti, la storia dei gattini ciechi dimostra che le categorie della formazione di base, come la padronanza della lingua e l’analisi logica, non possono recuperarsi oltre il tempo di quel periodo critico in cui vengono naturalmente acquisite.

Portato nel nostro campo, l’esperimento induce a ritenere improbabile che una classe dirigente figlia della Seconda Repubblica, cresciuta nel disconoscimento dell’avversario, forgiata su un’identità contrappositiva, schiava del consenso, adusa a una demagogia nemica dell’esattezza, possa imparare a guardare lontano e ad assumersi le responsabilità conseguenti, richieste dai tempi. Accredita il pessimismo l’impasse parlamentare di un anno di coabitazione con Draghi a Palazzo. Perché se è vero che il premier non ha fatto toccare palla ai partiti sulle questioni legate all’emergenza sanitaria ed economica, niente avrebbe loro impedito di trovare uno straccio d’intesa almeno sulla legge elettorale. Per non dire dei tanti temi, connessi a domande urgenti della società, rimasti a galleggiare tra un ramo e l’altro delle Camere, a riprova che la politica da sola non ce la fa. Il rischio, come ammonisce un altro allievo del Massimo, Giuseppe De Rita, è che nei confronti del marziano si scateni un crisi di rigetto. Vorrebbe dire che tre iniezioni di vaccino e un vagone di soldi europei ci hanno salvato la vita e ridato la speranza, ma non bastano da sole a infondere al sistema la virtù perduta dell’analisi logica.

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