Categoria: Filosofia

  • Il dio di Spinoza (e di Einstein)

    Quando Einstein insegnava in molte università degli Stati Uniti la domanda ricorrente che gli studenti gli facevano era sempre la stessa:

    “Crede in Dio?”

    Einstein dava sempre la stessa risposta:

    “Credo nel Dio di Spinoza.”

    Per chi non ne sa nulla può non voler dire niente, il suo pensiero e la sua visione rimangono sempre gli stessi…

    Baruch Spinoza è stato un importante filosofo vissuto durante il XVII secolo, dunque in pieno razionalismo: la sua filosofia si basa quindi molto sulla logica, tanto da identificare Dio come ordine geometrico del mondo, che si manifesta nella perfezione della Natura.

    Il suo pensiero si può quindi condensare in una delle sue espressioni più famose, Deus sive natura: Dio ovvero la Natura.

    C’è chi sostiene che il Dio di Spinoza possa pronunciare queste parole:

    “Smettila di pregare e di batterti sul petto.
    Divertiti, ama, canta e goditi tutto ciò che questo mondo ti può dare.
    Non voglio che tu visiti i templi freddi e bui che tu dici essere la mia casa!
    La mia casa non è in un tempio, ma nelle montagne, nelle foreste, nei fiumi, nei laghi e nelle spiagge. È li che si trova la mia casa ed è lì che esprimo il mio amore.
    Non farti ingannare dai testi scritti che parlano di me: se vuoi avvicinarti a me guarda un bel paesaggio, prova a sentire il vento e il calore sulla tua pelle.
    Non chiedermi nulla, io non ho il potere di cambiare la tua vita, tu sì.
    Non avere paura, io non giudico e non critico, non dispenso punizioni.
    Non credere a chi mi semplifica in delle semplici regole da rispettare: quelle servono solo a farti sentire inadeguato ed in colpa per quello che fai, servono a mantenerti sotto controllo.
    Non pensare sempre al mondo dopo la morte e non credere che è lì che conoscerai la vera bellezza: questo mondo ha da offrirti tanta di quella bellezza, e spetta solo a te scoprirla.
    Non pensare che io ti ponga delle regole: sei solo tu il padrone della vita, e decidi tu cosa farcene.
    Nessuno può dire cosa c’è dopo la morte, ma affrontare ogni giorno come se fosse l’ultima possibilità di amare, di gioire e di far qualsiasi cosa, ti aiuterà a vivere meglio.
    Non voglio che tu creda in me perché qualcuno sostiene fortemente che io esista, ma voglio che tu mi senta sempre in te ed intorno a te.”

    È possibile immaginare che il pensiero di Spinoza non sia stato ben visto all’epoca, ma forse non lo è tutt’oggi: il Dio che Spinoza predica è un Dio di libertà, slegato dalle azioni umane del perdono e della punizione. Spinoza è stato uno dei filosofi che ha riportato la vita nelle mani della persona di chi la vive.

    Einstein abbracciò completamente la visione geometrica e naturale di Dio. Un concetto che può farci riflettere su cosa sia la religione per noi e può ampliare le nostre vedute

  • Note sul comunismo

    Note sul comunismo

    Risposta a Quanto pensi ci metteranno tutti a capire che quello che c’era in Russia o in Cina non era comunismo? da Ciccio Napolitano https://it.quora.com/Quanto-pensi-ci-metteranno-tutti-a-capire-che-quello-che-cera-in-Russia-o-in-Cina-non-era-comunismo/answer/Ciccio-Napolitano-1?ch=18&oid=367477478&share=9ef2394c&srid=vNXkr&target_type=answer

    Quanto pensi ci metteranno tutti a capire che quello che c’era in Russia o in Cina non era comunismo?

    Il comunismo é il tempo dedicato alla dimensione comune e sociale.

    Pratichi concretamente il comunismo ogni volta che fai sport o ti dedichi alla tua crescita personale e alla crescita degli altri, quando fai volontariato, lavoro in parrocchia, quando ti dedichi ai tuoi cari quando viaggi per svago e fai il turista, quando cioè puoi dedicarti, oltre che al lavoro necessario per produrre il reddito che ti consente di vivere, anche al tempo extra, al tempo condiviso, solidale, comunitario.

    Questa è l’unica definizione rigorosa, fondata, filologica, del comunismo secondo Karl Marx.

    Nel corso di due secoli, specie in Europa, c’è stato molto comunismo realizzato.

    Questa affermazione é evidentemente fondata sol che si consideri che questo stile di vita, quando Marx era in vita era appannaggio solo delle persone molto ricche. Tutti gli altri, cioè i trisavoli della quasi totalità delle persone che stanno leggendo, per mangiare doveva lavorare dall’età di sette -otto anni per sei sette giorni a settimana, per 10–12 ore al giorno, finché non moriva di malattie e di stenti. Marx voleva liberare le persone dal lavoro salariato, da quel lavoro salariato confidando nella capacità del sistema produttivo industriale implementato dalla borghesia grazie al capitalismo (si, proprio dalla classe borghese e dal capitalismo di cui Marx era un estimatore), il comunismo é ottenuto mediante la proprietà comune dei mezzi di produzione. La proprietà comune non è la proprietà di Stato.

    • ‘Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico‘.

    K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24

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    Marx ha scritto tutto, ma proprio tutto, in funzione di questi temi.

    I modelli di produzione costituiscono la struttura che conforma la società in un dato momento storico e la Storia stessa. Non sono tanto le guerre a fare la Storia, ma le trasformazioni dei modelli produttivi che generano la Storia.
    I rapporti economici costituiscono la struttura da cui dipendono (sovrastruttura) le relazioni culturali, ideali, religiose, sociali. A ogni passaggio paradigmatico (dalla rivoluzione del neolitico, all’età del bronzo e poi a quella del ferro, alle economie di guerra e schiavistiche, al mercantilismo, fino alla nascita della manifattura della fabbrica moderna), corrispondono forme politiche, valori morali e religiosi, organizzazioni sociali, classi sociali, modelli culturali ed estetici conseguenti.

    Il modello d produzione industriale genera il lavoro salariato e la classe sociale dei salariati della fabbrica, che entrano in competizione/conflitto con la classe, altrettanto nuova dei capitalisti.

    L’obiettivo delle classi padronali é quella di ottenere il massimo tempo di lavoro con la minima retribuzione. Per ottenere questi obiettivi puntano alla contrattazione individuale. Mentre quella dei lavoratori è quella di ottenere retribuzioni più alte, riduzione dell’orario di lavoro, ruolo sociale dei lavoratori come singoli e come classe sociale unità. Per ottenere questi obiettivi puntano alla organizzazione di classe (partiti operai e organizzazioni sindacali) e alla contrattazione collettiva.
    Il capitalismo tende a generare processi di superamento della forma dello Stato Nazione con la creazione del capitalismo finanziario che distrugge la classe degli industriali capitalisti generati dalla manifattura della fase dello Stato Nazione. .

    Grazie per la richiesta!

    Io non so in quale maniera tu idealizzi il comunismo, ma per quello che mi riguarda l’Unione Sovietica e la Cina Popolare erano assolutamente due sistemi comunisti.

    Ti faccio un esempio per chiarire il concetto. Nella ex Unione Sovietica come da dettami di Karl Marx era vietato possedere mezzi di produzione. In agricoltura in particolare nessuno poteva avere la proprietà dei terreni agricoli. Una parte della terra coltivata apparteneva direttamente allo Stato attraverso i Sovchoz, le grandi aziende statali dell’economia pianificata, e chi ci lavorava era un salariato statale. Il restante dei terreni agricoli era proprietà dei Kolchoz, cioè cooperative agricole. Ai contadini di questi ultimi era tuttavia permesso coltivare in proprio il terreno prospiciente la propria abitazione, fino ad un massimo di 4.000 metri quadrati. Per darti dei termini di paragone, l’azienda agricola media in Italia ha oggi una dimensione di circa 84.000 mq, e ai tempi degli zar si pensava che meno di 55.000 mq fossero insufficienti al sostentamento di una famiglia. Si trattava quindi di superfici piuttosto contenute. I contadini potevano utilizzare i prodotti di quei terreni (che avevano in uso, ma appartenevano al Kolchoz) per uso personale, ma anche venderli al mercato.

    Tutto ciò era nato ai tempi di Lenin. Il primo leader del neonato Stato sovietico infatti aveva cercato inizialmente di pianificare completamente l’agricoltura russa. Tuttavia i 5 milioni di morti per fame e le 200 mila persone fucilate per sedare le rivolte sembrarono troppi pure a lui. Per questo col NEP vennero assegnati ai kolchoz circa l’80% dei terreni, e fu creato quel piccolo pertugio all’iniziativa agricola privata. Tramite essi meno del 7% dei terreni agricoli erano gestiti privatamente ma producevano circa la metà della produzione agricola sovietica: tanto bastò a salvare milioni di persone dalla fame.

    Lo Stato sovietico tuttavia predilesse sempre i sovchoz, che negli anni presero sempre più spazio nei confronti dei kolchoz. Quando i primi superarono i secondi, nei primi anni ’60, e i terreni gestiti dai privati scesero sotto al 5%, l’Unione Sovietica perse l’autonomia alimentare e cominciò a importare grano dagli USA pagandolo in oro (il rublo era carta straccia). Oro che si procurava vendendo AK-47 e altre armi agli stati sudditi in giro per il mondo. Così altri morivano al posto dei contadini russi. Negli ultimi decenni meno del 3% dei terreni produceva ancora oltre il 25% del cibo sovietico. Nella sua storia, i pochi terreni a gestione privata produssero a parità di superficie mediamente 9 volte di più di quelli gestiti dalle cooperative e 19 volte di più delle imprese statali pianificate.

    Ora, io non so se tu consideri più comunisti i kolchoz o i sovchoz: entrambi in ogni caso erano mezzi di produzione collettivi. Tuttavia, tutti i dati e i fatti che ti ho qui riportato dimostrano inequivocabilmente due cose.

    Primo, la collettivizzazione delle aziende agricole creò fame e rivolte, e fu per controllare questo che lo Stato sovietico dovette usare la violenza e la tirannia. In altre parole, il fallimento economico del comunismo ne ha provocato la degenerazione antidemocratica, non il contrario. E questo nonostante l’economia sovietica fosse ben più florida di quanto non sia mai stata quella maoista o quella cubana (per dirne due).

    Secondo, anche l’esperienza dell’agricoltura sovietica dimostra che Adam Smith aveva ragione: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse”. E non era il comunismo a sfamare i russi, ma il legittimo interesse di una fortunata minoranza di contadini sovietici.

    EDIT.

    Mi è stato chiesto di aggiungere qualche riferimento ai fatti da me citati. E’ tutto facilmente riscontrabile in qualsiasi buon testo di storia contemporanea. Addirittura molte cose me le ricordavo dal mio libro di scuola del Liceo (che frequentai verso la fine della Guerra Fredda). Metterò qui un po’ di riferimenti a Wikipedia dove trovare le notizie.

    Sui sovchoz

    Sovchoz – Wikipedia

    Sui kolchoz la voce in Inglese è molto più dettagliata di quella in Italiano, dove si trovano anche i dati sulla produttività dei kolchoz, sovchoz e dei terreni gestiti privatamente.

    Kolkhoz – Wikipedia

    Sulla Fame del 1920–22 e il passaggio al NEP (Nuova Politica Economica) consiglio nuovamente le voci in Inglese, assolutamente più approfondite di quelle italiane.

    Vladimir Lenin – Wikipedia

    New Economic Policy – Wikipedia

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  • L’UOVO di Andy Weir

    Stavi tornando a casa quando sei morto.

    E’ stato un incidente stradale. Nulla di particolarmente notevole ma fatale. Ti sei lasciato dietro una moglie e due bambini. E’ stata una morte indolore. I paramedici hanno fatto del loro meglio per salvarvi, ma senza successo. Il tuo corpo era così completamente distrutto.

    E fu allora che mi incotrasti.

    “Cosa… cosa è successo?” Hai chiesto. “Dove sono?”

    “Sei morto”, ho detto, come dato di fatto. Non serve a nulla sminuire le parole.

    “C’era un… un camion ed ha sbandato”

    “Si”, ho detto.

    “Sono… sono morto?”

    “Si ma non sentirti in colpa. Tutti muoiono” , ho detto.

    Ti sei guardato intorno. C’era il nulla. Solo tu ed io. “Cos’è questo posto?” hai chiesto. “E’ l’aldilà?”

    “Più o meno” ho detto.

    “Sei Dio?” hai chiesto.

    “Si” ho risposto. “Sono Dio”

    “I miei figli… mia moglie” hai detto.

    “Cosa ne sarà di loro?”

    “Staranno bene?”

    “Questo è ciò che mi piace vedere”, ho detto. “Sei appena morto e il tuo unico pensiero è la tua famiglia. E’ una cosa buona”.

    Mi hai guardato affascinato. Per te non assomigliavo a Dio. Sembravo un uomo qualunque. O forse una donna. Una qualche vaga figura autoritaria, forse. Più un insegnante di grammatica che l’Onnipotente.

    “Non preoccuparti” ho detto. “Staranno bene. I tuoi figli ti ricorderanno perfetto sotto ogni tu aspetto. Non hanno avuto tempo di sentire risentimento nei tuoi confronti. Tua moglie piangerà ma dentro sarà segretamente sollevata. Ad essere onesti, il vostro matrimonio stava cadendo a pezzi. Se può farti stare meglio si sentirà in colpa per essersi sentita sollevata della tua morte”

    “Oh” hai detto. “Quindi cosa accadrà adesso? Andrò in paradiso all’inferno o dove?”

    “Nessuno dei due” ho detto. “Ti reincarnerai”

    “Ah” hai detto “Quindi gli indiani avevano ragione,”

    “Tutte le religioni sono giuste a modo loro, cammina con me”.

    Mi hai seguito mentre percorrevamo il vuoto. “Dove stiamo andando?”

    “In nessun posto in particolare,” ho risposto “E’ semplicemente piacevole camminare mentre parliamo”

    “Qual è il punto?” hai chiesto. “Quando sarò rinato, sarò solo una lavagna vuota giusto? Un bambino. Quindi tutte le mie esperienze e ciò che ho fatto nella mia vita non conteranno più”

    “Non è così” ho detto “Avete dentro di voi tutte le conoscenze e le esperienze di tutte le vostre vite passate. Solo che ora non te le ricordi”.

    Ho smesso di camminare e ti ho preso le spalle. “La tua anima è più straordinaria, meravigliosa e gigante che possa immaginare. La mente umana può contenere solo una minuscola parte della tua essenza. E’ come mettere il dito in un bicchiere d’acqua per vedere se è caldo o freddo. Metti una piccola parte di te stesso nel vaso e quando lo riporti fuori, hai acquisito tutte le esperienze che ha avuto.

    Sei stato un essere umano per gli ultimi 48 anni quindi non hai ancora percepito il resto della tua immensa coscienza. Se rimanessimo abbastanza a lungo inizieresti a ricordare tutto, ma non ha senso farlo tra una vita e l’altra.”

    “Quante volte mi sono reincarnato allora?”

    “Oh molte. tanti e tanti.Hai avuto molte vite diverse”. Ho detto. “Questa volta sarai una contadina cinese nel 540 d.C.”

    “Aspetta, cosa?” Hai balbettato “Mi puoi mandare indietro nel tempo?”

    “Beh, si tecnicamente. Il tempo come lo conosco esiste solo nel tuo universo. Le cose sono diverse da dove vengo io”

    “Da dove vieni?” mi hai chiesto.

    “Oh certo”, ho spiegato “Vengo da qualche parte. Da qualche altra parte. E ce ne sono altri come me. So che vorrai sapere com’è lì, ma onestamente non capiresti”.

    “Oh” hai detto un po’ abbattuto.”Ma aspetta. Se mi e mi reincarnassi in altri luoghi nel tempo, a un certo punto avrei potuto interagire con me stesso”.

    “Certo. Accade sempre. E con entrambe le vite, consapevoli solo della loro durata di vita, non ti accorgi nemmeno che sta succedendo”.

    “Quindi qual è il punto di tutto?”

    “Seriamente?” ho chiesto. “Seriamente’ Mi stai chiedendo dell’origine della vita? Non è un po’ stereotipato?”

    “Beh, è una domanda ragionevole” hai insistito.

    Ti ho guardato negli occhi. “Il senso della vita, la ragione per cui ho creato questo universo è che tu maturi.”

    “Intendi l’umanità? Vuoi che maturiamo?”

    “No, solamente tu. Ho creato questo universo per te. Con ogni nuova vita si cresce e si matura e si diventa un intelletto sempre più grande”

    “Solo io? E tutti gli altri?”

    “Non c’è nessun altro” ho detto. “Nell’universo ci siamo solo tu ed io”

    Mi hai fissato attonito. “Ma tutte le persone sulla terra…”

    “Tu. Differenti incarnazioni di te”

    “<Aspetta. Io sono tutti!?

    “L’hai capito” ho detto dandoti una pacca sulla schiena.

    “Io sono ogni umano che è sempre esistito?”

    “O che mai esisterà, si”.

    “Sono Abraham Lincoln?”

    “e sei John Wilkes Booth” ho aggiunto.

    “Sono Hitler?” ho detto inorridito.

    “E sei le milioni di persine che ha ucciso”

    “Sono Jesus?”

    “E tutti coloro che lo hanno seguito”

    Ti sei azzittito.

    “Ogni volta che vittimizzi qualcuno” ho detto, “stai vittimizzando te stesso. Ogni atto di gentilezza che hai fatto, lo hai rivolto a te stesso. Ogni moment felice e triste che hai mai provato, che ogni umani ha provato o proverà sono tutte tue esperienze”

    Hai pensato a lungo.

    “Perché?” mi hai chiesto.”Perché fai tutto questo?”

    “Perché un giorno tu diventerai come me. Perché è questo ciò che sei. Sei uno della mia specie. Sei mio figlio”

    “Whoa,” hai detto incredulo. “Significa che sono Dio?”

    “No. Non ancora. Sei un feto. Stai ancora crescendo. Una volta che avrai vissuto ogni vita umana, sarai cresciuto abbastanza per nascere”.

    “Quindi l’intero universo” hai detto “E’ solo…”

    “Un uovo” ho risposto. “Ora è tempo per te di iniziare la tua prossima vita”

  • LA FINE DELLE ÉLITE intervista a Zygmunt Bauman

    LA FINE DELLE ÉLITE intervista a Zygmunt Bauman

    Da “L’Espresso”

    LA FINE DELLE ÉLITE
    Perché i demagoghi hanno successo
    La Brexit. L’incubo Trump, Le Pen in Francia e non solo. Viviamo in un’epoca in cui la gente si ribella alle scelte delle classi dirigenti. E favorisce i populisti che con linguaggio semplice e greve attaccano il sistema. Parla Zygmunt Bauman
    DI WLODEK GOLDKORN
    04 luglio 2016

    Perché i demagoghi hanno successo
    Mettiamo in ordine tutto quello a cui stiamo assistendo. La Brexit. La crescita dei consensi di Donald Trump, un personaggio che fino a ieri sarebbe stato il protagonista di una commedia di non ottimo gusto e non il candidato serio alla presidenza degli Usa. Il centro Europa che dimentica di essere cuore del Continente e predilige il ripristino dei muri eretti per separare Paesi come Ungheria o Polonia dall’agognato Occidente. La rivolta contro l’”Europa di Bruxelles e dei banchieri”. L’accettazione della volgarità come linguaggio corrente.

    Forse tutto questo è, semplicemente, la fine di un mondo. In altre parole: è probabile che lo sgomento, l’incapacità di capire le cose che accadono sotto i nostri occhi perché contrarie alla nostra razionalità occidentale (rapporto causa-effetto; il potere della parola e del sapere; il rispetto, se non per l’altro, almeno per il proprio benessere e per quello dei figli e nipoti) siano la prova del fatto che siamo davanti a un passaggio d’epoca, una rivoluzione nell’universo della modernità. Tanto che il rapporto tra le élite e ciò che viene chiamato “popolo” è come se si fosse interrotto, come se al posto della fede in un progresso che comporta e lega insieme elementi come democrazia, libertà, benessere, visione del futuro, fosse subentrata la nostalgia di un passato mitico e inventato; una specie di utopia retrograda. Insomma, Farage e Trump, il populismo demagogico di un Orbán (ungherese) o un Kaczynski (polacco), di una Le Pen o un Salvini, come versione laica della reinvenzione del passato, che finora abbiamo attribuito solo all’Islam politico. Ossia: davanti alla prospettiva di un domani che non è migliore prediligiamo uno “ieri” usato, un po’ ammaccato, ma rassicurante.

    Lo spiega, in questa intervista con “l’Espresso”, Zygmunt Bauman, il più filosofo tra i sociologi e il più sociologo tra i filosofi, il quale proprio in questi giorni ha consegnato al suo editore inglese un testo dedicato alla nostalgia come forma di utopia. Significa grosso modo questo: quando il presente si manifesta come una vita priva di senso e senza qualità; quando le nostre città sono piene di gente considerata superflua, quando il futuro suscita angoscia anziché speranza, siamo propensi a inventarci una specie di “passato migliore”. Nella volontà di uscire dalla Ue, manifestata dal referendum britannico, c’è un elemento di nostalgia (quindi di invenzione del passato) verso un Regno Unito, simpatico, civile, ordinato, dove il bobby disarmato aiuta la vecchietta ad attraversare la strada e il lattaio lascia il latte in una bottiglia fuori porta, e nessuno lo ruba. Bauman assume questa impostazione e allarga l’analisi: «Stiamo assistendo a una moltiplicazione delle crisi. Ogni giorno le pagine dei quotidiani, così come i nostri apparecchi radio e schermi di tv e computer, traboccano di notizie sulle nuove crisi, su situazioni che fino a ieri ignoravamo, su Paesi di cui a malapena sapevamo il nome. Ho il sospetto che dietro a tutte queste crisi (o dietro la maggior parte di esse) ci sia una specie di meta-crisi».

    Cosa è la meta-crisi, Zygmunt Bauman?

    «È la crisi del nostro modo di essere nel mondo, un modo di vita dominante (nella nostra “moderna” parte del globo terrestre) negli ultimi secoli. Lo chiamerei “una vita per l’avvenire”, la speranza di un futuro migliore del presente. Il presente, così abbiamo pensato, non era altro che un momento del divenire di un futuro. Un futuro, che, a sua volta, sarebbe arrivato inevitabilmente, aiutato dallo sforzo e dalle azioni degli umani, ma rispondente alle ferree leggi del progresso. Pensavamo a un movimento dallo stato attuale, di disagio, verso una vita più agevole e più consona ai desideri degli umani. Ecco, penso che la fiducia nella bontà del futuro stia svanendo, gradualmente ma impietosamente».

    E il progresso?
    «È cambiato di segno. Oggi evoca più paura che speranza. Paura a causa della nostra ignoranza, indolenza, incapacità di far fronte alle nuove richieste ed esigenze, alle sfide della vita. In altre parole, il progresso si associa al timore di restare indietro, di perdere la posizione sociale e il benessere guadagnati con fatica. Vorrei richiamare l’Angelus Novus».

    È il quadro di Klee, che servì a Walter Benjamin per definire il concetto del progresso. Vale la pena di citarlo per esteso: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso, si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

    «Ecco, questo angelo oggi è rovesciato: è spinto all’indietro dalla forza degli incubi della decadenza di cui è foriero l’avvenire minaccioso. Le esperienze del passato, imperfette ma sperimentate e quindi ben conosciute, ci appaiono molto più sopportabili delle invenzioni imprevedibili del futuro».

    Ancora ieri, e basti pensare a un Clinton, un Prodi, un Mazowiecki, un Havel, le élite politiche si caratterizzavano per una visione del mondo e dell’avvenire. E grazie alla rappresentanza di questa visione riuscivano a mobilitare l’elettorato. L’elettorato a sua volta non era una clientela da conquistare, ma consisteva in classi con interessi razionali da difendere e desideri conformi alla realtà da proiettare nel futuro. Oggi, abbiamo invece Trump, Le Pen. La paura dell’avvenire segna una sconfitta delle élite?
    «Negli ultimi anni si è verificato qualcosa che forse non è una separazione totale, ma sicuramente un disturbo serissimo nella comunicazione tra le élite politiche e gli “oi polloi”».

    Cioè la moltitudine, la massa amorfa.
    «L’élite politica, nel suo modo di pensare (e di agire) è sempre più globalizzata, perché costretta a confrontarsi con potenze e poteri indipendenti dalla politica e sempre più extraterritoriali. Si tratta di un’élite che ha altre preoccupazioni e diverso linguaggio rispetto alle angosce che attanagliano la gente che essa in teoria dovrebbe rappresentare. I vari Trump, Orbán, Boris Johnson, Kaczynski o Le Pen (è un elenco che cresce ogni giorno) hanno il vantaggio di dire pane al pane. E sanno quanto sia facile appellarsi alle emozioni degli “oi polloi”.

    Basta descrivere la realtà adattando il modo di raccontare agli orizzonti mentali dei propri ascoltatori; usare lo stesso idioma che utilizzano i commensali al pub quando dopo un paio di boccali di birra condividono i sentimenti di rabbia e di odio nei confronti dei presunti colpevoli delle proprie angosce».

    Solo difficoltà di comunicazione, o invece furbizia e dei nuovi leader senza scrupoli?
    «C’è una seconda parte della mia analisi, forse più significativa. Per quale motivo Trump e i suoi simili trovano così numerosi e grati ascoltatori? Qui dobbiamo tornare alla prima domanda di questa conversazione. Il voltare le spalle alle autorità politiche che definirei “ortodosse” o tradizionali, con tutti i loro innati difetti, è dovuto principalmente all’uso ormai abituale delle autorità statali a non mantenere le promesse. I demagoghi hanno quindi un’ottima base per attribuire l’incapacità delle autorità di mantenere la parola data alla corruzione, all’ignoranza, alla viltà o addirittura alle cattive e perfide intenzioni. È sempre più diffusa quindi la convinzione che la democrazia abbia fallito e tradito i suoi compiti. Che sia inefficiente e indolente. Che è debole e incapace di agire. In parole povere: è da buttar via. Meglio rivolgersi ai demagoghi».

    E cosa chiediamo a loro?
    «Il ritorno a un certo passato, per quanto i nostri ricordi siano avvolti nella nebbia, o artificialmente colorati. In concreto: vogliamo un capo potente in grado di imporre il governo della mano forte. Vogliamo un potere che si assuma la responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni, togliendola dalle nostre spalle. Bentornato quindi, grande capo, e tutto il passato sarà dimenticato o comunque, perdonato (direbbe Nietzsche: abbasso tu, Apollo con la tua disgraziata predilezione per l’armonia delle diversità; torna dal tuo esilio Dioniso a capo di una massa che avanza ballando a righe serrate)».

    Quali sono le contromisure che possiamo prendere?
    «Non commettere l’errore, mortale, di sottovalutare, o peggio disprezzare il fenomeno dei demagoghi e la nostalgia per il governo della mano forte. Non si tratta di un’idea stramba prodotta da pazzi marginali: siamo invece di fronte a una conseguenza prevedibile e quasi inevitabile del divorzio tra il potere e la politica (un divorzio da me tante volte descritto e segnalato). Abbiamo a che fare col confronto tra un potere globalizzato e svincolato dal controllo della politica da un lato e la politica locale e sofferente per la cronica deficienza del potere, dall’altro».

    C’è anche l’elogio dell’ignoranza. Un tempo i politici cercavano di mostrarsi come persone colte. Non molti anni fa, invece, l’ex ministro Tremonti a un comizio disse: “Siamo gente che raramente prende in mano un libro”. Il premier Renzi si fa fotografare mentre gioca alla Playstation e mai assorto in lettura di un classico della letteratura. Perché l’ignoranza è diventata un valore?
    «Una volta (fino a poco tempo fa) una grande e non scrivente maggioranza dell’umanità leggeva ciò che gli altri scrivevano. Questa divisione del lavoro è stata abolita, grazie a Facebook, Twitter e i loro simili. È bastata un’operazione facile: abbassare significativamente l’asticella del livello della scrittura e della pubblicazione. Non si tratta di una svolta del tutto negativa. Milioni di persone sono oggi in grado di porgere liberamente e direttamente, a milioni di altri esseri umani, materiali da leggere. Ma si è trattato di un “package deal”, un affare in cui c’è uno scambio. In cambio di questa libertà di comunicazione, l’esercizio della scrittura è slegato dal dovere della lettura. L’uomo che scrive, oggi, non ha tempo per leggere, e tantomeno avverte la necessità di leggere. Un drammaturgo russo del Settecento, Denis Fonvizin, fa dire a un suo protagonista, detto Il minorenne: “Io non leggo. Io stampo da me i miei testi”. Oggi tutti possiamo (anche se grazie a dio non tutti lo vogliamo) diventare come quel personaggio. Però non sono d’accordo con l’ipotesi che l’ignoranza sia diventata un valore. La verità è che l’ignoranza non è più un ostacolo alla carriera, all’ambizione di diventare famosi e all’appagamento della propria vanità (e nei sogni di molte persone al perseguire i profitti molto concreti). Anche per insultare anziché argomentare ci vuole una certa preparazione e qualità non indifferenti».

  • L’idea di modernità o società “liquida”

    L’idea di modernità o società “liquida”

    Con questa idea Bauman illustra l’assenza di qualunque riferimento “solido” per l’uomo di oggi. Con conseguenze ancora tutte da capire

     

    La società liquida

    L’idea di modernità o società “liquida” è dovuta, come è noto, a Zygmunt Bauman. Per chi voglia capire le varie implicazioni di questo concetto può essere utile “Stato di crisi” (Einaudi, 18 euro) dove Bauman e Carlo Bordoni discutono di questo e altri problemi.

    La società liquida inizia a delinearsi con quella corrente detta post-moderno (peraltro termine “ombrello” sotto cui si affollano diversi fenomeni, dall’architettura alla filosofia e alla letteratura, e non sempre in modo coerente). Il postmodernismo segnava la crisi delle “grandi narrazioni” che ritenevano di poter sovrapporre al mondo un modello di ordine, si è dedicato a una rivisitazione ludica o ironica del passato, e in vari modi si è intersecato con le pulsioni nichilistiche. Ma per Bordoni anche il postmodernismo è in fase decrescente. Esso era di carattere temporaneo, ci siamo passati attraverso senza neppure accorgercene, e sarà un giorno studiato come il pre-romanticismo. Serviva a segnalare un avvenimento in corso d’opera, ha rappresentato una sorta di traghetto dalla modernità a un presente ancora senza nome.

    Per Bauman tra le caratteristiche di questo presente in stato nascente si può annoverare la crisi dello Stato (quale libertà decisionale rimane agli stati nazionali di fronte ai poteri delle forze supernazionali?). Scompare un’entità che garantiva ai singoli la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo, e con la sua crisi ecco che si sono profilate la crisi delle ideologie, e dunque dei partiti, e in generale di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni.

    Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore (fenomeni di cui mi sono sovente occupato nelle “Bustine”) e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo (il nuovo telefonino ci dà pochissimo rispetto al vecchio, ma il vecchio va rottamato per partecipare a quest’orgia del desiderio).

    Crisi delle ideologie e dei partiti: qualcuno ha detto che questi ultimi sono ormai taxi sui quali salgono un capopopolo o un capobastone che controllano dei voti, scegliendoli con disinvoltura a seconda delle opportunità che consentono – e questo rende persino comprensibili e non più scandalosi i voltagabbana. Non solo i singoli, ma la società stessa vive in un continuo processo di precarizzazione.

    Che cosa si potrà sostituire a questa liquefazione? Non lo sappiamo ancora e questo interregno durerà abbastanza a lungo. Bauman osserva come (finita la fede di una salvezza proveniente dall’alto, dallo stato o dalla rivoluzione), sia tipico dell’interregno il movimento d’indignazione. Questi movimenti sanno che cosa non vogliono ma non che cosa vogliono. E vorrei ricordare che uno dei problemi posti dai responsabili dell’ordine pubblico a proposito dei black bloc è che non si riesce più a etichettarli, come poteva avvenire con gli anarchici, coi fascisti, con le brigate rosse. Essi agiscono, ma nessuno sa più quando e in quale direzione. Neppure loro.

    C’è un modo per sopravvivere alla liquidità? C’è, ed è rendersi appunto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti. Ma il guaio è che la politica e in gran parte l’intellighenzia non hanno ancora compreso la portata del fenomeno. Bauman rimane per ora una “vox clamantis in deserto”.

  • Democrazia malata, parla Bauman

    Democrazia malata, parla Bauman

    Democrazia malata, parla Bauman

    Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora. Intervista al teorico della “società liquida”

    Zygmunt Bauman, il grande sociologo teorico della “società liquida”, di recente ha riservato molte riflessioni a Internet, in particolare ai social media accusati di creare l’illusione di una rete affettiva in realtà inesistente. Parte quindi da questi temi la conversazione de “l’Espresso” con Bauman per allargarsi però all’attualità politica, dai cosiddetti “partiti antisistema” europei alle primarie americane.

    Professor Bauman, la sua è una critica esistenzialista alla Rete?

    «Internet rende possibili cose che prima erano impossibili. Potenzialmente, dà a tutti un comodo accesso a una sterminata quantità di informazioni: oggi abbiamo il mondo a portata di un dito. In più la Rete permette a chiunque di pubblicare un suo pensiero senza chiedere il permesso a nessuno: ciascuno è editore di se stesso, una cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ma tutto questo — la facilità, la rapidità, la disintermediazione — porta con sé anche dei problemi. Ad esempio, quando lei esce di casa e si trova per strada, in un bar o su un autobus, interagisce volente o nolente con le persone più diverse, quelle che le piacciono e quelle che non le piacciono, quelle che la pensano come lei e quelle che la pensano in modo diverso: non può evitare il contatto e la contaminazione, è esposto alla necessità di affrontare la complessità del mondo. La complessità spesso non e un’esperienza piacevole e costringe a uno sforzo. Internet è il contrario: ti permette di non vedere e non incontrare chiunque sia diverso da te.

    Ecco perché la Rete è allo stesso tempo una medicina contro la solitudine — ci si sente connessi con il mondo — e un luogo di “confortevole solitudine”, dove ciascuno è chiuso nel suo network da cui può escludere chi è diverso ed eliminare tutto ciò che è meno piacevole».

    Ci sono però interi movimenti politici che sono nati dalla Rete o si sono diffusi grazie a essa. Le primavere arabe, ad esempio, ma anche Podemos in Spagna e il Movimento 5 Stelle in Italia…

    «È una questione ricca di ambivalenze. In generale però le ricerche sociali mostrano che la maggior parte delle persone usa Internet non per aprire la propria visione ma per chiudersi dietro degli steccati, per costruire delle “comfort zone”. Un po’ come quei quartieri fuori città circondati da cancelli, da guardie armate e da telecamere a circuito chiuso, dove le persone vivono in una sorta di mondo immaginario, senza controversie, senza conflitti, senza esporsi alle differenze. Poi, certo, grazie alla Rete oggi puoi convincere le persone del tuo network ad andare in piazza a manifestare contro qualcosa o qualcuno, ma l’incidenza sul reale di queste mobilitazioni nate nelle “comfort zone” è un altro discorso. Lei ad esempio mi citava le primavere arabe: non mi sembra che abbiano mai portato a un’estate».

    Quindi secondo lei non c’è un collegamento tra la diffusione della Rete e la protesta antisistema?

    «Certo che c’è, ma Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Le cause delle proteste antisistema vanno cercate invece nella crisi di fiducia verso la democrazia. E questa a sua volta deriva dal fatto che viviamo in un pianeta globalizzato e con una grandissima interdipendenza, ma gli strumenti che abbiamo a disposizione per gestire questa nuova condizione sono quelli ereditati dai nostri nonni e propri dello Stato nazionale: quando cioè una decisione presa in una capitale aveva realizzazione nel territorio di quel Paese e non valeva cinque centimetri più in là.

    Adesso invece l’interdipendenza è mondiale e gli Stati nazionali sono incapaci di gestirla.

    Così oggi i governi sono sotto una doppia pressione: da un lato devono rispondere agli elettori, i quali pretendono che i politici realizzino ciò per cui li hanno votati; dall’altra parte, la realtà globale interdipendente — i mercati, le borse, la finanza e altri poteri mai eletti da nessuno — impediscono che questi impegni vengano mantenuti. La crisi di fiducia nasce da questa doppia pressione. Sentiamo tutti che ormai le democrazie non funzionano, ma non sappiamo come aggiustarle o con che cosa rimpiazzarle».

    Di qui nascono i movimenti antisistema?

    «Direi piuttosto che da qui nascono i sentimenti antisistema: attenzione a parlare di movimenti. Che sono un concetto sociologico, mentre il sentimento è un concetto psicologico».

    E questi sentimenti non si traducono in movimenti?

    «Le persone si scambiano reazioni emotive sui social network e magari da lì si organizzano per andare in piazza a protestare. Gridano tutti gli stessi slogan, ma in realtà ciascuno ha interessi diversi e aspettative deluse diverse. Poi si torna a casa contenti della fratellanza con gli altri che si è creata in piazza, ma è una solidarietà falsa.

    Io la chiamo “carnival solidarity” perché mi ricorda appunto quegli eventi in cui per quattro o cinque giorni ci si mette la maschera, si canta e si balla insieme, fuoriuscendo per un tempo definito dall’ordine delle cose.

    Ecco, quelle proteste consentono l’esplosione collettiva di problemi diversi e istanze individuali per un arco di tempo breve, come a carnevale, ma la rabbia non si trasforma in un cambiamento condiviso».

    Alcuni partiti che quanto meno incanalano questi sentimenti però esistono, seppur molto diversi tra loro. Cosa ne pensa?

    «Si trovano anche loro di fronte alla crisi della democrazia di cui abbiamo parlato. E a questa crisi rispondono chi provando a rafforzare la democrazia, chi invece proponendo un “uomo forte” o qualche forma di fondamentalismo politico-religioso. Del resto, se le democrazie non riescono a realizzare le aspettative, non è strano che si cerchi qualcuno a cui attribuire una funzione salvifica, l’uomo “di polso” che sembra in grado di realizzare ciò che le democrazie non sanno mantenere. Un esempio recente è Donald Trump: oggi molti elettori americani possono restare sedotti da chi attacca le istituzioni democratiche e ne deride le rappresentanze. In più il miliardario Trump rappresenta il trasferimento dei consensi dalla leadership al management: dove la leadership è la capacita di fare le cose giuste, “to do right things”, mentre il management è semplicemente la capacità di fare le cose bene, “to do things right”. C’è una grande differenza».

    Questo crollo di fiducia verso la democrazia spiega anche la caratteristica “populista” che viene spesso attribuita ai movimenti antisistema? E lei è d’accordo con questa definizione?

    «“Populisti” in politica sono sempre gli altri, gli avversari. In realtà ogni buon partito dovrebbe essere “populista”, cioè ascoltare cosa pensano e cosa chiedono le persone ordinarie, i semplici cittadini. Invece nel dibattito pubblico la parola viene usata in senso dispregiativo.

    No, non sono preoccupato per la presunta minaccia del “populismo”, ma per la possibile risposta autoritaria alla crisi della democrazia».

    Ma perché in alcuni Paesi la protesta antisistema si è declinata a destra, come in Francia, e in altri a sinistra, come in Spagna?

    «Perché siamo in un interregno, per citare Gramsci quando diceva che “se il vecchio muore e il nuovo non nasce, in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

    Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora.

    Destra e sinistra erano concetti pieni di significato fino a pochi decenni fa, ma lo sono molto meno nella complessità policentrica del presente».

    In che cosa consiste questa complessità policentrica?

    «Dopo la caduta del Muro di Berlino, alcuni pensatori ipotizzarono la fine della storia, la conclusione del conflitto politico all’interno di un pacifico e definitivo sistema liberal-capitalistico. Si sbagliavano. Il pianeta è molto più diviso e conflittuale di prima, pieno di scontri locali più difficili da capire rispetto a quelli che opponevano tra loro i due blocchi: pensi solo a quello che sta succedendo in Asia centrale, dove arabi musulmani uccidono altri arabi musulmani. Ecco, questo policentrismo complesso sta anche nella politica, dove si intrecciano istanze scollegate tra loro, spesso difficili definire come “di destra” o “di sinistra”. Prima il confronto era tra conservatori e progressisti, tra chi voleva una società basata sul profitto e chi sulla cooperazione: oggi i conflitti sono anche maggiori, ma meno semplici e meno netti».

    Quindi anche quegli apparenti segnali di “ritorno alla sinistra” come Jeremy Corbyn nel Regno Unito o Bernie Sanders negli Stati Uniti sono solo effetti ottici?

    «Sanders rappresenta un fenomeno nuovo e interessante, ma ci sono Paesi in cui la sinistra non esiste più, come nell’est europeo. In generale, il problema contemporaneo della sinistra è la sua “constituency”, il suo blocco elettorale. Una volta era la classe dei lavoratori, che la sinistra difendeva. Oggi però, con i capitali che si muovono in fretta da un paese all’altro, anche gli strumenti con cui prima si tutelavano gli interessi delle classi più basse sono tra quelli che non funzionano più, a iniziare dagli scioperi: se i lavoratori incrociano le braccia, un secondo dopo il proprietario trasferisce la produzione in un Paese in via di sviluppo dove trova gente contenta di guadagnare un paio di dollari al giorno. In questo contesto, molti politici eredi della sinistra sono spaventati dall’idea di irritare le Borse, i mercati, la finanza, insomma i poteri che possono mandare gambe all’aria un Paese in un giorno. Quindi parlano d’altro: ad esempio, si autodefinisce di sinistra la parte politica favorevole ai matrimoni omosessuali. Bello, giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra? Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della sinistra? Poi sì, ci sono anche altri, come Sanders, che invece vogliono rappresentare la protesta contro le leggi globali dei mercati e si candidano per sfidarle. Ne ho molto rispetto, ma non vorrei che si creassero troppe aspettative su quello che si può davvero fare con gli strumenti non più funzionanti propri dell’era dell’interregno. Altrimenti si rischia di restare delusi in fretta, come è avvenuto con Tsipras in Grecia».


    (pubblicato in origine su gilioli.blogautore.espresso.repubblica.i

  • Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

    Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

     Sarebbe interessante un’analisi sui fatti attuali (Daesh) alla luce della scoperta.

    All’interno delle sue argomentazioni, Lorenz distingue due diverse tipologie di comportamento aggressivo: quello “inter-specifico”, che si manifesta tra individui di specie diversa ed è finalizzato alla ricerca del cibo, e quello “intra-specifico”, che si attua tra membri della stessa specie. Nell’ aggressività tra specie diverse non c’è l’intenzione di far male, ad esempio quando un animale cerca il cibo, come un leone che attacca una gazzella, non manifesta un’espressione di rabbia e di ferocia.
    Solo l’aggressività intra-specifica, quindi, dovrebbe essere considerata un comportamento aggressivo vero e proprio, in quanto intenzionale, ma anch’ essa sarebbe legata a un istinto innato fondamentale per la conservazione dell’individuo e della specie.
    Aggressività ritualizzata: L’anello di Re Salomone

    Questa pulsione aggressiva, essendo innata, non può essere annullata, per questa ragione nella nostra specie e in tutti gli animali superiori si sono sviluppati dei meccanismi che ne limitano la distruttività, in particolare la ritualizzazione e l’inibizione.

    Nel caso della ritualizzazione il “ridirezionamento” di un comportamento aggressivo permette di evitarne gli effetti negativi attraverso la realizzazione di rituali e cerimonie di significato prevalentemente simbolico.

    Hanno un significato inibitorio quegli atteggiamenti ritualizzati di pacificazione o di sottomissione (come il sorriso, il saluto, la stretta di mano) che, segnalando le proprie intenzioni pacifiche, svolgono la funzione di rivolgere l’aggressività verso altre direzioni.

    Questi comportamenti sono solitamente riservati ad alcuni membri del proprio gruppo sociale e non ad altri.

    In questo modo si stabilisce una differenziazione tra l’amico e lo sconosciuto.
    Gli stessi legami affettivi tra gli esseri umani, come l’amicizia e l’amore, sarebbero quindi in molti casi la conseguenza della ritualizzazione e della inibizione dell’aggressività.

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  • Che cos’è l’Ur-Fascismo?

    Che cos’è l’Ur-Fascismo?

     

     

    Spesso ci troviamo di fronte a personalità politiche, a singole proposte o a interi programmi che suscitano in noi accuse di “fascismo”, pur sapendo che nulla esse hanno a che fare con il fascismo storicamente inteso.

    E non solo il “fascismo” si riscontra in occasioni e in persone temporalmente distanti dal fu Partito Nazionale Fascista: nel corso della storia i detrattori ne hanno ritrovato le caratteristiche in ambiti geograficamente disconnessi.

    Scrive Umberto Eco nel suo saggio Il fascismo eterno (pubblicato come “Totalitarismo fuzzy e ur-fascismo” su La Rivista dei Libri, n°7/8 Luglio/agosto 1995):

    Perché un’espressione come “Fascist pig” veniva usata dai radicali americani persino per indicare un poliziotto che non approvava quello che fumavano? Perché non dicevano: “Porco Caugolard”, “Porco falangista”, “Porco ustascia”, “Porco Quisling”, “Porco Ante Pavelic”, “Porco nazista”?

    Eco parte da questa constatazione per tracciare una distinzione tra i tre principali regimi del Novecento: mentre il nazismo e lo stalinismo furono veri e propri totalitarismi, lo stesso non si può dire del fascismo italiano, il quale rimase una “semplice” dittatura.

    Un regime totalitario, per quanto liberticida e violento sia, è estremamente coerente nei confronti dell’ideologia da cui scaturisce e all’infuori della quale non è dato parlare. Non esiste pensiero fuori dall’unica, vera, filosofia che scorre in ogni angolo del corpo sociale.

    Il nazismo aveva un cuore anticristiano e neopagano, e un testo sacro completo, il Mein Kampf; Stalin fondò il suo regime sulla versione ufficiale del marxismo sovietico, il Diamat, essenzialmente materialista e ateo. Al contrario, il fascismo fu un regime estremamente incoerente e ideologicamente sgangherato, spiega Eco:

    Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica … fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei a un’alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista … la parola “fascismo” divenne una sineddoche, una pars pro toto per movimenti totalitari diversi … Il fascismo era un totalitarismo fuzzy, un alveare di contraddizioni … nacque proclamando il suo nuovo ordine rivoluzionario ma era finanziato dai proprietari terrieri più conservatori.

    Inoltre, da convinto anticlericale qual era, in quegli anni Mussolini firmò i Patti Lateranensi e non disdegnava di farsi chiamare “l’uomo della Provvidenza”.

    Molti di quelli che diverranno intellettuali del Partito Comunista, dopo l’esperienza nelle fila dei partigiani per la liberazione, negli anni Trenta avevano trovato spazio nei Gruppi Universitari Fascisti. E questo non per contiguità ideologica o per tolleranza dei fascisti verso idee filosofiche o artistiche diverse (Eco cita l’esempio degli ermetici), quanto per l’incapacità dell’apparato intellettuale fascista di controllare e quindi censurare sul nascere fermenti ideologici differenti. La dissidenza veniva violentemente perseguita solo quando diventava socialmente pericolosa per il regime: da qui lo squadrismo con le sue aggressioni a sfondo politico, gli assassinii di Matteotti e dei fratelli Rosselli, il confino ad mortem di Gramsci, la soppressione della libertà di stampa, di associazione, lo smantellamento dei sindacati, il controllo governativo dei mass media e dell’attività legislativa del parlamento fino all’emanazione delle leggi razziali fasciste nell’agosto del 1938.

    In sintesi, «Ci fu un solo nazismo … al contrario, si può giocare al fascismo in molti modi». Il fascismo è una di quelle nozioni che, usando Wittgenstein, indica una serie di attività accomunate da qualche “somiglianza di famiglia”. È quello che accade alla nozione di gioco. Tra le configurazioni possibili, sopravvive una «lista di caratteristiche tipiche» di quello che Eco chiama «Ur-Fascismo o “fascismo eterno”».

    1. Tradizionalismo o culto della tradizione: il fascismo utilizza un approccio sincretistico alla cultura che mette sullo stesso piano conoscenze, anche contraddittorie tra loro, che alludono a una qualche verità primitiva. Il tradizionalismo impedisce così qualsiasi avanzamento del sapere.

    2. Anti-modernismo: l’ideologia del sangue e della terra (Blut und Boden) condanna la Ragione celebrata invece dall’illuminismo.

    3. Irrazionalismo: l’Ur-Fascismo ammira l’azione per l’azione, senza riflessione alcuna. La cultura e il mondo intellettuale sono perciò visti con sospetto (ricordiamo il tradizionalismo).

    4. Anti-criticismo: un approccio sincretistico, teso a racchiudere nello stesso concetto di verità immagini eterogenee tra loro, non tollera le distinzioni operate naturalmente dallo spirito critico. «Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento».

    5. Le distinzioni operate dallo spirito critico sulla realtà danno forma al diverso. Il fascismo eterno, opponendosi al criticismo, è quindi essenzialmente xenofobo e razzista.

    6. Timore per la pressione delle classi subalterne: l’Ur-Fascismo si appella alla frustrazione della classe media e fa leva sul suo horror proletariati.

    7. Complottismo od ossessione del complotto: intimamente legato alla xenofobia (paura del diverso), storicamente si traduce nel nazionalismo dei regimi fascisti. L’ossessione del complotto come strumento di governo individua anche nemici interni allo stato (gli ebrei ne sono il modello).

    8. Incapacità di valutare la forza del nemico: la psicologia fascista alterna senso di umiliazione nei confronti del nemico, troppo forte, alla convinzione della propria superiorità su un nemico in realtà infinitamente più debole. «I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre».

    9. Guerra permanente e “vita per la lotta” da cui dedurre una soluzione finale che porti a una pacificata Età dell’Oro, concetto che contravviene però, alla vita come eterna guerra.

    10. Elitismo: l’Ur-Fascismo disprezza i deboli. Storicamente però, dovendo attirare le masse popolare, l’elitismo si è manifestato nel provincialismo dei regimi fascisti.

    11. Eroismo e culto per la morte. Troppo bonario per sognare di morire e per vivere continuamente di lotta, il fascista nel suo quotidiano ripiega su un più semplice

    12. Machismo. Che poi indica una ben più banale invidia penis.

    13. Populismo “qualitativo”: secondo Eco, il fascismo utilizza il concetto di popolo come «entità monolitica che esprime la volontà comune (e non “generale”, aggiungiamo noi)». Da questo populismo comprendiamo l’anti-parlamentarismo e il disinteresse verso la maggioranza. «Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo TV o Internet, … l’Ur-Fascismo deve opporsi ai “putridi” governi parlamentari».

    14. Neolinguismo: per neolingua si intendono alcuni impieghi strumentali del linguaggio e dello studio, impiegati a sostegno del potere costituito. L’Ur-Fascismo promuove l’ignoranza e disprezza il ragionamento, caratteristiche riscontrabili tanto nei talk-show televisivi berlusconiani quanto nel «lessico semplice ed elementare dei testi scolastici nazisti e fascisti».

    La lista qui sopra dà corpo storico alla tesi di Eco secondo cui il fascismo non è un regime totalitaristico, poiché impiega queste caratteristiche senza rispettare uno schema ideologico coerente, disponendone con lo scopo del rafforzamento del proprio potere sull’ordine sociale . Può aiutarci a escludere politici vecchi e nuovi che si ripresentano nella corsa al potere. Con l’augurio di un buon voto.

  • La lezione di Pareto. La politica senza élite non è vera politica

    La lezione di Pareto. La politica senza élite non è vera politica

    L’ingegnere-economista ci ha insegnato che l’essenza della democrazia (assieme al popolo) è la classe dirigente. Più che mai assente oggi in Italia…

    E se il difetto fosse nel manico? Se il problema fosse nella democrazia che non seleziona e non riconosce classi dirigenti ma solo demagoghi, istrioni o emissari dei «poteri forti»? Da anni il dibattito politico è inchiodato all’alternativa tra populismo e democrazia dei partiti, tra presidenzialismo e parlamentarismo.

    Il populismo è una risposta, a volte rozza, spesso semplificatrice, al deficit di sovranità, di politica e di democrazia delle società globali sempre più dominate dalle oligarchie. Ma il populismo, come le oligarchie di partito o d’affari, lascia degenerare un processo necessario a ogni società: la formazione e la circolazione delle élite. S’interrompe la selezione delle classi dirigenti, tutto è affidato agli umori della piazza, al fascino seducente dei leader o all’opposto agli interessi forti tutelati dalle oligarchie, siano esse finanziarie, tecniche o partitocratiche. Da decenni si è spezzato il circuito rigenerativo delle élite.

    L’Italia non forma da anni classi dirigenti e negli ultimi tempi, per restare alla distinzione di Gramsci, non ha più nemmeno una vera e propria classe dominante. Chi domina, bene o male, si occupa dei dominati, li opprime ma li comanda. Da alcuni anni, invece, la classe dominante si è fatta classe sovrastante; cioè vive al di sopra e al di fuori del Paese, non si assume precise responsabilità di comando, nemmeno nel segno della dominazione. Si estranea, non coopta nuove energie, preferisce diminuire i rapporti con la plebe, lascia che un ceto medio sempre più vasto si proletarizzi e sprofondi nel disagio del benessere calante e si ritira in un mondo inaccessibile. La degenerazione è dunque doppia: da classe dirigente a classe dominante e da questa a classe sovrastante. Chi si occupa delle sorti del Paese, quali sono i luoghi in cui si formano le classi dirigenti e si premiano le eccellenze? Processi sempre più anonimi, impersonali, poteri opachi e remoti, flussi e logaritmi. Né si delinea alcun blocco storico e sociale in ascesa. Il flusso vitale è interrotto. Non c’è né il lento e continuo mutarsi senza dissolversi della classe dirigente di cui parlava il conservatore Gaetano Mosca né la lotta tra due élite concorrenti di cui parlava il più audace Vilfredo Pareto (1848-1923). Mosca, Pareto e Michels sono noti come machiavellans . Al pari di Machiavelli si attengono al realismo, ritengono invariabile la natura umana sotto l’egida della necessità, della virtù e della fortuna; si governa con la forza e con l’astuzia. Per loro anche le democrazie sono guidate da minoranze attive, non è mai esistito un governo del popolo; la sovranità è sempre nelle mani di pochi, la storia è un cimitero di aristocrazie e la lotta politica è una competizione tra élite in ascesa e in declino. Una società è sana e vitale se riconosce e promuove le élite al potere e la loro circolazione.

    Degli autori citati, Pareto ha lo sguardo più ampio e più lungo, da economista e da sociologo, oltre che da osservatore della storia e della politica, dei caratteri e dei personaggi. Cent’anni fa scrisse la sua opera capitale, il Trattato di sociologia , che però vide la luce a guerra inoltrata, quando alcune delle sue previsioni si stavano già avverando: in Russia, in Italia e nel resto d’Europa. La sua lezione sull’impossibile autodirezione delle masse ebbe allievi diversi come Lenin e Mussolini, ma anche Gramsci e Gobetti. Si racconta che i due leader si siano sfiorati solo una volta nella vita, a Losanna, seguendo le lezioni di Pareto. Partendo da un giovanile socialismo e poi un disilluso liberismo, Pareto si accorse che le ideologie erano gusci vuoti senza due ingredienti essenziali: la forza e il mito. Qui Pareto combacia con un altro filosofo che accomunò Mussolini e Lenin, ma anche Gramsci e Gobetti: Sorel.

    Pareto e Sorel, due ingegneri convertiti alla storia delle idee. Il mito di Sorel è lo sciopero generale, il mito di Pareto è la nazione. Pareto fu definito il Karl Marx del fascismo; incoraggiò Mussolini al tempo della Marcia su Roma («Ora o mai più»), scrisse sulla rivista mussoliniana Gerarchia e rappresentò l’Italia fascista alla Società delle Nazioni, ma morì troppo presto – il 1923 – per vedere il seguito. Cent’anni fa polemizzò con Maffeo Pantaleoni sugli esiti del conflitto mondiale: Pareto sosteneva che avrebbe favorito rivoluzioni socialiste, Pantaleoni che avrebbe rilanciato lo spirito patriottico. Ebbero ragioni entrambi perché sorsero il bolscevismo e il fascismo, dopo il biennio rosso. Pareto colse nella storia residui e derivazioni. I primi sono fattori non logici ma persistenti, le seconde sono invece la loro rielaborazione logica. Tra i residui spiccano due impulsi opposti: l’istinto delle combinazioni che produce dinamismo e mix innovativi e la persistenza degli aggregati che induce a permanere negli assetti precedenti. Ambedue le spinte sono necessarie in ogni società per garantire equilibrio tra continuità e novità ma oggi ci sembrano entrambi carenti. Deficit di tradizione e di innovazione. Ci sono anche i residui sessuali sui quali si erige il mito virtuista col suo puritanesimo sessuofobo, che Pareto sferza con sagacia.

    Dietro ogni teoria c’è la lotta per la conquista del potere: l’uguaglianza, ad esempio, è un mito che serve prima per rovesciare le classi superiori, poi per affiancarle e infine sottometterle alle classi in ascesa, istituendo così nuove diseguaglianze. La storia e la società sono mosse dal conflitto incessante tra élite che detengono il potere e le altre che vogliono subentrarvi. Anche la democrazia è succube di questa tensione e non c’è suffragio universale che non celi un passaggio di potere da una minoranza a un’altra. La stagnazione uccide i regimi almeno quanto il vorticoso turnover delle élite. Ma è impensabile che una società possa sopravvivere senza classi dirigenti. Da qui la necessità di ripensare alle aristocrazie come a una priorità assoluta per una società che procede con piloti automatici, rotte prestabilite dalla tecno-economia e leader politici ridotti a livello di guitti e animatori, steward e hostess. Si tratta di ripristinare i circuiti in cui si formano le élite – scuole, laboratori, palestre – e i luoghi, il clima, la cultura in cui si riconoscono meriti, qualità e capacità.

    Nella politica come nella società urge ripartire dalle classi dirigenti. Non c’è capo, demos o sistema di leggi che possa compensare la mancanza di élite alla guida del Paese. Pareto lo aveva capito già prima dell’avvento della democrazia globale di massa. Anche una democrazia senza élite è decapitata e destinata a morire, al pari di una democrazia senza popolo.