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  • Il popolo di nessuno

    Il popolo di nessuno

    A) Sul piano politico interno, in Italia più che altrove accade la messinscena della teatrocrazia con la specifica che c’è un doppio potere del teatro. C’è il potere del teatro che viene inscenato rappresentando i dati di realtà e il potere che si esprime direttamente nella realtà intesa come teatro della vita. A ciascuno è dato di esprimersi nell’una o nell’altra forma.

    B) La politica non vive nella realtà del teatro. Aleggia la sua vanagloria nel teatro della realtà, in quel teatro di autoreferenzialità che prende a pugni la realtà delle cose, simulandola maldestramente, e dove nessun attore conta qualcosa fuori dalla scena.

    La politica nell’era del suo sfinimento non è più in grado di sussulti eroici. Non dipende dall’incapacità degli attori. Dipende dalla realtà della scena della democrazia contemporanea. In essa il potere del popolo si esercita tanto più quanto il rappresentante esercita solo un metapotere di facciata.

    C) Un tempo c’era il popolo democristiano o fascista o comunista.

    Ora c’è solo il popolo di nessuno. Il popolo di nessuno coincide con la popolazione.

    La politica gli è indifferente e questa indifferenza

    non esprime un assenza di desiderio di libertà, ma al contrario una ricerca affannosa di essa. Il popolo di nessuno desidera essere libero ma vive la sua libertà al di fuori della sfera politica.

    L’indifferenza verso il potere politico non è percepita dal popolo di nessuno come una limitazione della propria libertà; è viceversa percepita come la forma superiore di libertà nelle democrazie contemporanee.

    D) Le libertà sono vieppiù scisse dal potere politico. Non è più il potere politico a decidere quali forme di libertà può tollerare, ma sono le libertà diffuse della popolazione che decidono quali forme di potere politico tollerare. Il potere è avvertito come ostile appena supera la sua soglia di indifferenza verso le libertà della popolazione. E) Ciò che conta ai popoli di nessuno non è quello che avviene nelle sfere dei diritti politici, ma in quelle dei diritti civili. I diritti politici sono un semplice

    passpartout per garantirsi, quando occorre, i diritti civili.

    F) I diritti civili sono la forma superiore di protagonismo delle masse contemporanee che partecipano così alla vita collettiva nonostante l’indifferenza verso il resto della sfera politica.

    G) Chi, con le vicende del covid o del climate change, teme un collasso della democrazia prende

    un abbaglio. Nella sospensione di alcune regole democratiche della politica contemporanea non c’è nessuno stato d’eccezione da reincarnare come uno stolido infinito avatar di Karl Schmidt. In quel presunto collasso c’è l’orgasmo della democrazia.

    H) Il potere del popolo di nessuno – sempre orrifico, come qualsiasi potere di qualcuno – muta le forme della democrazia, ne mette in mora alcune e ne esalta altre onde adattarsi allo stato della diffusione spazio temporale dei poteri.

    I) La democrazia – quel potere che permette i privilegi di parte con il formale consenso di tutti – è viva proprio perché alcuni suoi istituti appaiono morti.

    L) I partiti, per esempio. Chi ne ha nostalgia? Come dice il loro nome, fanno gli interessi di una parte, ma le parti della contemporaneità sono troppo fluide per essere rappresentate stabilmente. Infatti, i partiti trionfano e collassano in tempi rapidissimi. Il loro trionfo è già nella caduta.

    M) Fin quando sopravvivono, per sopravvivere, i partiti residui fanno ciò che devono fare. Non essendo in grado di decidere, sono costretti a fare ciò che la realtà delle cose ha già deciso. Prendono decisioni non conformi alle idee, che mancano o sono sempre emendabili, ma alla possibilità di racimolare qualche, per quanto fatuo, consenso. Sono attratti da quel consenso che li ossigena e subito dopo li fa

    morire.

    N) Chi non ha problemi di consenso, Draghi e i suoi avatari, esercita un ruolo efficace fintanto che, e solo se, è in grado di porsi anziché come ostaggio delle parti, al di là e al di sopra di esse.

    O) Draghi e i suoi avatari non esistono in rappresentanza dei partiti ma come espressione delle istituzioni.

    P) Draghi e i suoi avatari riflettono il primato in questa fase storica delle istituzioni rispetto alla politica e ai politici.

    Q) Ciò che sta profondamente cambiando è il regime politico che chiamiamo democrazia. Diversamente da altri periodi storici, il potere tanto più si esercita diffusamente tanto meno necessita che questo esercizio venga rappresentato dalla mediazione politica classica. Dal primo lato, dall’esercizio del potere diffuso, i regimi attuali, in particolare in Europa, sono iperdemocratici. Dal secondo lato, appaiono sempre più ipodemocratici. Il funzionamento del regime politico più diffuso nella contemporaneità – che per comodità si chiama ancora democrazia – esige nel contempo massima diffusione del potere e massima concentrazione della decisione formale a condizione che l’uno e l’altra non vadano in corto circuito.

    R) C’è un gran peana sulla crisi della democrazia

    che si riflette nella perdita di ruolo dei votati e dei partiti. I partiti sono divenuti un simulacro della democrazia. Il simulacro dei partiti esigerebbe che la democrazia esistesse perché ci sono e fintanto che i partiti esistono. Occorre invece registrare che la democrazia vige nonostante i partiti. Le istituzioni anziché collassare ricevono linfa dalla necrosi dei partiti.

    S) I legislatori fanno meno le leggi di quanto le leggi fanno i legislatori. L’Italia rimane una repubblica parlamentare nonostante il Parlamento abbia un ruolo sempre più marginale e il Parlamento approvi decisioni prese in buona parte altrove.

    T) Un altro simulacro della democrazia è diventato il voto. Siccome si vota si è in un regime di democrazia. Questo è il pensiero comune. E a un superiore numero di votanti corrisponde un maggiore gradiente di democrazia. Questo è il corollario.

    Eppure, la realtà dice altro. Dice che senza alcun bisogno di votare, si conoscono in ogni momento le opinioni del popolo di nessuno. Si vota per necessità e per ritualità.

    Ma non è nelle forme più o meno massive in cui si esprime il voto che si possono intuire benessere e malessere delle democrazie.

    V) Quando votano tutti vuol dire che c’è paura di qualcuno, quando votano in pochi vuol dire che c’è

    indifferenza verso l’esito delle elezioni, indifferenza che significa

    assenza di paura. Nell’astensione dal voto il popolo di nessuno dice: non ho paura.

    Tutto sommato, nell’astensione politica non c’è una crisi di fiducia, ma al contrario la consapevolezza che, comunque vadano le cose, chiunque sia eletto, i semafori continueranno a funzionare, la macchina istituzionale governerà la sua inerzia.

    Z) L’indifferenza verso la politica è una forma di libertà, un lusso, che le società democratiche avanzate si possono permettere.

    ZZ) Il voto è diventata una forma di consumo. Si vota se se ne sente la necessità e fino a quando quel voto viene ritenuto abile a qualcosa.

    ZZ..) Il voto usa e getta esprime una sensibilità diffusa al consumismo della politica.

    Il voto oltre il consumismo è una forma di dipendenza. Il voto come forma di dovere, come feticcio, che il popolo di nessuno avverte sempre meno.

    ZZ.. ) Un tempo, ciascuno aveva bisogno del voto per sentirsi, almeno un po’, sovrano. Ora, è il sovrano che ha bisogno del voto, per sentirsi, ancora un po’, re.

  • Teatrocrazia della Repubblica

    Teatrocrazia della Repubblica

    In Italia nasce la diarchia dell’uno. Contro ogni principio giuridico, i due poteri su cui si è appoggiata l’architrave della democrazia degli ultimi lustri rimangono formalmente differenti ma vengono unificati nello stesso nome.

    La contemporaneità irride i canoni consunti del diritto e della politica. Le regole costituite, i protocolli del diritto e della politica prevedono che il Presidente del Consiglio non possa ricoprire anche la carica di Presidente della Repubblica.

    Nella matematica della realtà l’uno non può diventare due così come il due non diviene uno.

    Nella realtà formale l’Italia non ha ciò che è già nella realtà delle cose.

    Il fatto è che, comunque vada, il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica sono Mario Draghi.

    La realtà formale si srotola secondo la Teatrocrazia di platonica memoria. La realtà delle cose invece accade su un piano parallelo, quello di una matematica virtuale in cui si contempla la possibilità che al di là di divenire formalmente l’uno o l’altro –

    Presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica – Mario Draghi sia già l’uno e l’altro, uno e bino – Presidente del Consiglio e Presidente della

    Repubblica.

    Per ricoprire le due cariche è indifferente che egli venga eletto Presidente della Repubblica o rimanga alla Presidenza del Consiglio. Chiunque eletto formalmente nella carica non ricoperta da Draghi è un suo avataro.2

    Se anche le due cariche non risultano formalmente ricoperte da lui, sono comunque suoi avatari. L’avataro di Draghi, sia ben inteso, non risponde al suo comando. Non è né un suo clone né un suo ologramma. Draghi, egli medesimo, infatti, è un avataro di Draghi. L’avataro di Draghi ha poco a che fare con le identità posticce dove proliferano improbabili credenze, regni soporiferi e supereroi della frustrazione.

    L’avataro di Draghi nasce dalla realtà dinamica della storia contemporanea la cui vivescenza brilla proprio dove più appare sfinita.

    Il due dell’uno non è l’uno reincarnato. È l’uno che appare anche in forma di due o di tre. In questo caso, è Draghi sia se si chiama come lui, sia se assume altro corpo e nome.

    È ridicolo quando a una singola persona vengono attribuiti i meriti o le infamie di un’intera comunità. Lei, quella persona, a meno dei deliri egoici sempre partoribili, sa bene di essere un avataro di ciò che è inscritto nel suo nome, dell’azione storica che interpreta

    più o meno degnamente. In lei si esprime ciò che intere comunità balbettano sul palcoscenico della storia. Lei, quella persona, pur balbettando e 2 Chiamiamo avataro l’ubiquitaria forma di chi mantiene i suoi caratteri essenziali anche quando muta corpo o nome. L’avataro non è uguale all’originale sia perché l’originale esso stesso di continuo muta sia perché pur nell’ubiquità due cose uguali non esistono.

    incespicando come ha fatto il 17 febbraio 2021 Draghi da Presidente del consiglio chiedendo la fiducia – ricordate? “… in questo momento due milioni sono ricoverati in terapia intensiva” – deve semplicemente risultare, nonostante i propri spasmi e le proprie meschinità, all’altezza di quella storia inscenata davanti ai suoi occhi.

    Draghi e i suoi avatari assumono le forme di un accadere storico che li prescinde incarnandoli. Il vero avataro di Draghi, ciò che lo muove in ogni istante, ha un nome: Italia mundi. L’Italia che non appartiene solo a se stessa ma al mondo intero.3

    La realtà è teatro. Il teatro della realtà non può prescindere dalla realtà, ma è costretto a stargli sempre o troppo avanti o troppo indietro. Vi sono le retroguardie e le avanguardie. La politica sta in retroguardia, asfittica e impotente. Le cose stanno in avanguardia.

    In avanguardia ci sono le Istituzioni, c’è Draghi Presidente del Consiglio e Draghi Presidente della Repubblica. In retroguardia ci sono i politici, i partiti, e il parlamento.

    Nessuno vuole Draghi alla Presidenza della Repubblica, ma siccome nessuno è in grado di decidere chi altro eleggere si finisce per votarlo o si vota un suo avataro.

    Nel caso di un moto improprio, dell’elezione di un partigiano non avataro di Draghi, l’eletto si adegua presto a lui o va a schiantarsi tra Scilla e Cariddi dell’Europa.

    Non è semplice pusillanimità italica. La politica in ogni parte del pianeta è incapace di agire. Reagisce tardi e a fatica solo sul baratro.

    Draghi e i suoi avatari non prenderebbero forma se nella realtà del teatro politico contemporaneo non fossero accadute grandi trasformazioni. In particolare, sul piano internazionale:

    1) Dopo l’uscita del Regno Unito, l’Italia suo malgrado svolge un ruolo centrale nell’UE.

    2) L’austerità, anche grazie al generale Covid, non intossica più l’aria europea.

    3 Per questo concetto si rimanda a Europa Mundi, rilasciato da pianetica.org nel settembre 2021

    3) Per effetto di una perdurante inadeguatezza, gli Usa non sono in grado di tenere un profilo d’equilibrio nella situazione internazionale. Il caso Ucraina è eclatante. Eppure, in quel contesto l’avataro di Draghi avrebbe già una proposta: è inutile che l’Ucraina entri nel moribondo involucro della Nato –

    la Russia ha un buon pretesto a chiedere che non vi entri – a condizione che l’Ucraina possa, quando lo vorrà e quando ne avrà i presupposti, entrare nella UE. Nei territori contesi, il modello Alto Adige – riconoscimento delle specificità lingustiche, privilegi anziché discriminazioni nell’appartenere a un Paese d’altra lingua – è pronto ad assicurare pace e prosperità della frontiera.

    4) Tutti gli attori geopolitici che disgraziatamente ancora sgomitano per avere un peso maggiore nelle gerarchie mondiali necessitano di un punto oblativo di contatto e di mediazione. Questo punto oblativo sempre più chiaramente si chiamerà: Europa. Ne hanno bisogno la Russia, la Cina, gli Usa, il mondo intero.

    5) Le crisi planetarie devastanti e ricorrenti non possono essere affrontate secondo gli interessi delle singole parti. Emerge sempre più chiaramente che nessun interesse particolare può essere coltivato prima e contro l’interesse planetario.

    6) Sugli aspetti fondamentali, gli interessi dell’Europa, dunque dell’Italia, coincidono con gli interessi planetari. Europa mundi è Italia mundi.

    7) Ne consegue che all’Italia tocca giocare in Europa lo stesso ruolo che compete all’UE nel resto del pianeta.

    8) In questo momento storico allo spazio geografico chiamato Italia tocca un ruolo mai avuto dai tempi della massima unità di Augusto o della massima frammentazione dei Comuni. Un essere per il mondo al di là della particolarità dell’essere. Ecco la singolarità d’avanguardia – personale, spaziale, temporale

    – ai tempi della Pianetica4.

    Per il concetto di Pianetica si rimanda al libro in uscita: Pianetica, di Pino Tripodi e Giuseppe Genna, Milano 2022

  • Prima dello gnomologio tanatologico.

    Prima dello gnomologio tanatologico.

    Una di noi è penetrato con difficoltà, almeno pari alla lucidità, per non dire al coraggio, e quindi alla paura e all’amore che la rinfocola, quasi la paura ne fosse la carnagione – una di noi è penetrato in territori estremi, dove la mortevita è vitamorte, laddove l’ossigeno sembrerebbe troppo puro e saturante, cosicché a quelle latitudini il respiro si fa quasi impossibile. Come avremmo desiderato essere innervati in polmoni più capaci!, o comunque di fattezze altre, per riuscire a innescare il fiato più ampio, per corroborarci all’aria ultrafina, che rende le nostre

    bisacce più macre e inadatte alle lontananze dei cosmi, in cui avremmo in animo di adattarci. . Terre di gas nobilissimi e impossibili, crotti nei massicci asperrimi. Climi estremi in radure estreme. Asperità geometriche, come quarzi scuri, barbagli di un sole che fatica a penetrare e risplendere, così come fatica a penetrare e risplendere chi di noi è giunto là, dove lo spazio della mortevita e della vitamorte barbaglia e inghiotte. Pare un fuoco freddo e fatuo ciò che ci prende, noi grigie stole nella corona gelida dei territori mutili di tutto, privi di bandiera, poiché nessuno Stato ha qui reclamato la proprietà di lande e monti, di abissi. La Scizia del respiro. Dietro quelle altissime alture squadrate e quei crepacci e orridi non si pensa cosa c’è, lo si conosce soltanto. Ogni Prometeo incatenato, sarà costretto a scatenarsi, prima o poi.

    L’altra di noi, spaventato e riottoso, ha provato l’impresa, ma le forze lo hanno abbandonato. Crede di avere esplorato quei territori, sorvolandoli con le ali del pensiero, parole sibilline gli sono state sussurrate all’orecchio e le mastica e le rimastica negli anni e negli annali, prima di intraprendere il percorso diaccio, la formula delle decreazioni lo atterrisce e la esalta. Tutto è incerto: significa forse che non c’è controllo? Urla, scalpita, punta i talloni, non va dove è andato l’altro, ama

    forse non trascorrere verso il clima geometrico e duro dall’aria tepida in cui è stato finora e che ha il

    calore della guancia e dalla primavera che arrugginisce.

    Il cambiamento climatico.

    L’una di noi, penetrato in quelle terre di follia, torna indietro a riprendere l’altra di noi. Così fanno i compagni di viaggio. Sono fratelli e sorelle, sono padri e madri, sono figlie e figli e tutto ciò assieme, sconvolta ogni forma, esclusa la confusione, che regna sovrana.

    La confusione è sovrana.

    Ricongiuntisi, l’una di noi e l’una di noi annottano in una tenda, male in arnese, attorno al fornello chimico che un minimo di calore garantisce loro, di stare su una porziuncola di terra, di bere un poco di acqua scaldata al fuocherello, di inspirare l’aria non raddensata dal gelo finale.

    Discutono della morte, della vita, della morte della morte, della vita della vita.

    Discordano. S’agitano. Tentano ipotesi, le vedono sbricolarsi come cartigli egizi, lacerti di cartapecora vergati dal popolo emblematico, che ha elaborato per sempre e per mai il proprio universale libro dei morti.

    Si accapigliano, sembrano divorarsi l’un l’altra. Il crepitio delle loro parole incrina l’atmosfera? No.

    Perché, come se fossero vivi, vestiamo i morti?

    Quanto più casta e giusta è la nudità dei corpi, che li avvicina al loro finalmente disincarnarsi. .

    Ma l’una di noi e l’una di noi confliggono, non credono all’altro e credono a se stessi.

    Questa è la filìa. E’ stare attenti, nella confusione che genera l’accordo e il disaccordo, forme generali che si partoriscono da sé nella filìa. Essere amici della sapienza è anzitutto essere amici. Così come la vita della vita, che è la morte della morte, si illustra nelle forme della vita e negli esiti della morte, anche la filìa, che è sapienza della sapienza e ignoranza dell’ignoranza, si definisce, transitoria e priva di supplica, nelle forme dell’accordo e del disaccordo.

    Siamo in disaccordo nella filìa.

    Un attimo stiamo parlando.

    Della morte diremo, della morte della morte, forse, qualche sillaba in più.

    Stiamo, stanno, estendendo il loro Gnomologio Tanatologico.

    Sono sentenze oscure, sbagliate, sballate, balbettano, sono barbare.

    Qualche sentenza, smozzicata dal viverla, la sentenza, arriverà.

    Non c’è discorso sul cosmo che non contempli la fine del cosmo. Loro sono a quel punto, loro che

    siamo noi.

    Abbiamo detto qualcosa. Abbiamo detto il qualcosa.

  • Res Ponso Abili

    Res Ponso Abili

    Il tema della responsabilità nella questione eutanasica è cruciale. Chi è abile a ponderare le cose ha generalmente l’onere della responsabilità, della risposta con un atto all’evenienza delle cose.

    Il rimpallo delle responsabilità è gioco ottuso nelle moderne selve dell’amministrazione democratica. La decisionalità e l’adecisionalità sono compagne assai frequenti dell’irresponsabilità per cui di norma accade che tutto venga agito nella più grande libertà senza che nessuno risulti responsabile. L’opacità della responsabilità è il frutto conseguente del guazzabbuglio delle regole. La libertà si presenta vieppiù come azione priva di responsabilità. Chi desidera essere libero desidera ancor di più sottrarsi alle responsabilità. Ogni conquista di libertà avviene con più che proporzionale delega della responsabilità.

    Se altrove si percepisce ormai con sufficiente chiarezza, sulla questione eutanasica –

    e in generale nel merito dei rapporti tra individui e Stato – il rapporto tra crescita delle libertà e delega delle responsabilità è eclatante.

    Forse così si assolve il gravoso compito di comprendere come mai, prima ancora di aver sottratto allo Stato il diritto di comminare una forma della

    morte, la società dei buoni scalpita per attribuirgli, con l’eutanasia, di nuovo, il potere di uccidere.

    La società, per sentirsi libera, chiede allo Stato di assumersi l’onere delle responsabilità che i singoli non vogliono più avere.

    Sono tanti i settori nei quali lo Stato è un surrogatore di prestazioni che tolgono ai singoli e alle loro tanto decantate famiglie le responsabilità sociali da cui intendono sottrarsi a tutti i costi.

    Il rapporto tra crescita delle libertà e ipertrofia delle deleghe di responsabilità dello Stato ha una lunga gestazione.

    La solidarietà sociale tra lavoratori per esempio inizia come mutuo soccorso e viene presto delegata e ingabbiata nello Stato e dallo Stato.

    È allo Stato che viene delegata ormai quasi completamente la responsabilità della cura.

    C’è una forma della libertà alla quale viene prestato scarso interesse. È la libertà dalla responsabilità e dalla cura. Si desidera essere liberi di non pulire la casa, di non cucinare, di non accudire i bambini, di non curare i genitori anziani. Si desidera essere liberi da ogni responsabilità. L’emancipazione dalle responsabilità di cura avviene o in forma di pecunia se se ne ha la possibilità o delegando allo stato tutto ciò che è possibile delegare.

    In quella delega ci si svincola dalle responsabilità, inoltre si rimane titolari a pieno titolo del privilegio alla critica, alla lamentela, alla pretesa di ottenere di più, sempre di più non per il servizio in sé, ma per sottrarsi alle responsabilità che moralmente permane come basso continuo di frustrazione e di indicibilità.

    È così che il più assatanato antistatalista non si avvede né della contraddizione né dell’ignominia di pretendere uno Stato ipertrofico.

    Lo Stato è condannato perciò a divenire responsabile delle irresponsabilità dei suoi abitanti. Più liberi pretendono di essere, più lo stato deve cumulare poteri. Ecco il potere di delegare i poteri. In questo Stato ricettacolo della irresponsabilità, ciascuno desidera di essere libero di fare ciò che vuole delegando lo Stato a fare tutto ciò che ciascuno non desidera fare e che non riesce, non vuole o non può pagarsi.

    È nelle corde di ogni libertario. Predicare la morte dello Stato ma renderlo immortale. Desiderare la morte e renderla immortale. Desiderare la vita è considerarla mortale. Volere uno Stato debole, ma nel contempo ipertrofico.

    Così si è liberi dallo Stato solo se si è liberi nello Stato.

    Liberi dalla responsabilità, tronfi nel diritto.

    Vuoti di responsabilità pieni di diritti.

    La deresponsabilità dei singoli accresce la responsabilità dello Stato. E ne nutre l’irresponsabilità e l’orrore.

  • Suicidio eutanasia

    Suicidio eutanasia

    Morte di Stato

    Attivisti d’ogni campo credono disputarsi la morte. Pretendono sapere quando la morte è buona, eutanasia, e quando invece è cattiva, distanosia o cacatonasia.

    Quando è dolorosa, algotanasia, e quando non lo è, analgotanasia.

    Si disputano la morte intuendo la vitalità capitale della partita. In quel sacco terminale, di fatti, si spenge e si illumina ogni anelito di vita.

    In verità si disputano l’aggettivazione della morte, buona-dolce-amara-cattiva, senza porsi il problema

    di definire il sostantivo.

    Che cosa è la morte. Qualcuno se lo domanda più? Domandarselo è forse inutile per la specie che tocca di propria mente il miraggio dell’immortalità. Ma se non si ha un’idea precisa di cosa sia la morte disputarsi quando sarebbe buona e quando invece è cattiva è sterilità pura.

    Tanto più che il tribunale del tempo giudica buono ciò che un tempo non lo era.

    Eutanasia in origine vuol dire buona morte. Ma il termine ha subìto nel tempo un poderoso slittamento semantico.

    Nella Grecia antica per eutanasia si intendeva per lo più la morte naturale, priva di dolore, accettata con animo sereno, perfetto compimento della perfetta vita. La buona morte dell’antichità avveniva per cause naturali, ma accadeva anche come atto volontario o come esito di una vicenda eroica. Il suicida o l’eroe che muore in battaglia non erano esenti da eutanasia. La buona morte li comprendeva.

    Il presupposto etico e teorico dell’eutanasia classica è che il volto della morte assuma le medesime forme della vita. Chi vive nella saggezza è sereno in vita e in morte.

    Affronta con tranquillità ogni evento della vita, anche quello ultimo e definitivo con cui la vita finisce di compiersi. Nell’accadere della morte, il compimento

    della vita deve essere coerente con lo svolgimento dell’intera vita.

    Il presupposto più cogente dell’eutanasia antica è che vi può essere buona morte solo se c’è stata buona vita.

    Purtroppo per il pensiero antico, per fortuna per le società d’ogni tempo, questo presupposto è privo di fondamento. Che i meritevoli in vita meritino una buona morte magari è auspicabile ma non è affatto dato. La fenomenologia della morte può essere coerente con la fenomenologia della vita, e qualche volta lo è, ma solo per caso. I filosofi dell’antichità hanno forzato il caos del caso trasformandolo in una necessità morale. Hanno preteso di costringere l’accadere in griglie etiche e causali destituite d’ogni fondamento.

    Ecco la cornice paradigmatica dell’eutanasia antica:

    Ciò che è deve combaciare con ciò che deve essere.

    Chi ha condotto buona vita è giusto che abbia buona morte e senz’altro l’avrà.

    L’eutanasia è l’atto finale dell’euzoia, della buona vita.

    Chi merita è giusto che consegua il bene in ogni campo, chi demerita invece no.

    Tale cornice paradigmatica – soprattutto nei lati estremi, che impregnano ogni altro sapere – era e rimane una delle dannazioni principali della filosofia.

    Diversamente da quei presupposti, la vita ci dice che, anche secondo i canoni della classicità, vi può essere buona vita e cattiva morte e viceversa non è raro rilevare che a vita cattiva corrisponda una buona morte.

    L’idea che l’eutanasia costituisca un giusto premio per chi ha vissuto nella giustizia e nella bontà è avvelenata dalla premialità.

    Il premio è un riconoscimento del merito solo per chi non ha mai davvero meritato.

    Chi per davvero merita nel premio scruta il trucco, la corruzione, l’ipocrisia. Il premio di chi per davvero merita non è la medaglia al valore o la gratifica. Il premio si compie e si esaurisce nell’atto meritevole, nelle pulsazioni che l’atto meritevole compie per colonizzare i non meritevoli i quali altrimenti continueranno a pretendere premi come risarcimento narcisistico per il congenito demerito del loro agire.

    Dallo stato di morte alla morte di Stato

    Il concetto di buona morte dell’antichità nulla ha a che fare con la contemporaneità.

    In epoca moderna per eutanasia si intende l’atto caritatevole compiuto per porre fine a sofferenze inenarrabili

    e ad atroci agonie.

    Se nell’antichità la buona morte è lo specchio della buona vita, nella contemporaneità l’eutanasia è un espediente per evitare la sofferenza e contrarre verso lo zero il tempo dell’agonia.

    La buona morte della contemporaneità non ha alcun legame con la buona vita.

    Indipendentemente da come ha condotto la propria esistenza, chiunque lo voglia –

    se vive in uno dei paesi che la contempla – ha diritto all’eutanasia. La buona morte non è assegnata solo ai meritevoli, ma è indicato come diritto universale.

    Lo Stato della morte

    Ma la differenza che più interessa il filosofare è: chi è il soggetto comminatore dell’eutanasia.

    Nell’antichità l’eutanasia era propinata dalla natura – vecchiaia – o dalla propria natura

    – suicidio o eroismo.

    Nella contemporaneità l’eutanasia non si ha né per diritto di natura né per inclinazione alla propria natura, ma per diritto eventualmente sancito dallo Stato.

    Ed è lo Stato eventualmente a garantirla, a regolarla e a comminarla.

    In questo acrobatico passaggio – dalla sfera naturale o singolare alla sfera statale – i movimenti eutanasici non ci vedono nulla di male. Non lo ritengono un problema.

    Questo problema – il fatto cioè che l’eutanasia comminata dallo Stato non sia visto come un problema – rischia di essere più importante del problema in sé dell’eutanasia. Come mai e perché non ci si avvede del pericolo tombale che a comminare la morte possa e debba essere lo Stato? Quel medesimo recalcitrante Stato a cui con immensa fatica, e con risultati non ancora del tutto universali, in una

    battaglia che dura millenni, si tenta di sottrarre il potere di comminare la morte a seguito di una condanna.

    La contrarietà verso la condanna a morte deriva da un principio etico immarcescibile: qualunque sia la colpa, chiunque sia il colpevole, nessuno, tanto meno lo Stato, ha diritto di uccidere perché uccidendo si macchierebbe di una colpa superiore. La colpa di esponenziare il torto anziché di ripararlo. La colpa di divenire aguzzino ingrassando il circolo dell’abominio. Gli aguzzini assurti a vittime e le vittime smaniose di passare nel campo dell’aguzzinio.

    Vietandogli la condanna a morte si nega allo Stato il diritto di uccidere. Quel medesimo diritto di uccidere contemporaneamente lo si chiede a gran voce con l’eutanasia non per eseguire una condanna

    ma per evitare una pena non giuridica, il dolore dell’agonia o i morsi inguaribili della malattia. Prima ancora di aver definitivamente sottratto allo Stato il suo potere di uccidere, si pretende che lo Stato sia ripristinato nel suo potere di comminare la morte. Questa iperbolica contraddizione si può giustificare solo con la solita giustificazione che ignora il giusto: il fin di bene giustifica il male. Ciò che risulta deplorevole – la condanna a morte comminata dallo Stato – risulta augurabile se agita a fin di bene. Ma chi decide qual è il bene? E chi decide qual è il fin di bene.

    Il bene e il buono hanno slittamenti semantici repentini. Si trovano a volte con disinvoltura in compagnia dei peggiori dei mali. Ciò non avviene solo per marcata ingenuità. Accade perché il male è mimetico. Niente, nessuno è capace di mimetizzarsi come il male.

    L’eutanasia nel secolo scorso si è ben sposata con l’eugenetica. Eugenetica ed eutanasia rischiano di tornare coppia vincente adesso che la specie ha imparato a dare la caccia a ogni malformazione genetica. Forse avremo geni perfetti, magari diverremo immortali ma per continuare a pretendere l’euzoia, la buona vita, non sarebbe il caso di non assegnare mai più, per nessun altro fine, allo Stato il diritto di uccidere?

    La morte di Stato, per qualunque fine venga comminata,

    è sempre un abominio.

    Salvarsi da quell’abominio è fondamentale se si vuole per davvero alleviare qualsiasi pena, pur anche quella della morte.

    Esiste la buona morte?

    Ma: esiste la buona morte?

    La morte è la morte. Catalogarla come buona o cattiva è errore filosofico di notevoli proporzioni. Meglio fermarsi all’obiettivo ultimo del significato che il termine eutanasia, forzando l’etimologia, ha assunto nella contemporaneità: la morte indolore, privata dalla prolungata sofferenza con cui spesso accade. La placida mors dei latini.

    Se la buona morte non esiste, se esiste la morte (di cui nulla si sa e nulla si può sapere, soltanto si è in grado di percepire essere qualcosa di differente dalla esperienza della comune vita; sulla quale sospendere il giudizio non per pigrizia etica, ma in quanto la morte si sottrae a qualsiasi giudizio) l’eutanasia antica come quella contemporanea è un’aberrazione. Aberrazione che si moltiplica per almeno altre cinque aberrazioni su cui urgerebbe discussione pubblica priva di contesa sulla cittadella dei supposti, nonché fatui, poteri.

    1) Con l’eutanasia si giudica la buona dalla cattiva morte giocando con l’assurdo.

    2) Con l’eutanasia si propina la morte di Stato e a

    comminarla è lo stesso Stato.

    3) Con quale coerenza lo Stato, privato nella gran parte dei paesi dalla pena di morte, propina la morte di sua propria mano?

    4) Se chi viene in nome dello Stato delegato a propinare la morte si rifiuta, diviene, per convinzione o per pretesto, obiettore di coscienza, si potrà lasciarlo libero di obiettare o la sua libertà varrà meno della libertà di praticare l’eutanasia?

    5) Quale libertà vale più di altre libertà?

    Suicidio assistito e analgotanasia

    Anche se l’eutanasia non è affatto buona come si pretende, rimane, tutto intero, il problema di evitare la sofferenza superflua in dipartita.

    Fino a che punto è lecito che un individuo sopporti livelli intollerabili di sofferenza.

    Quando a ciascuno è data la possibilità, se è data, di finire di soffrire?

    Sul final campo meglio evitare di sguazzare nell’ovvio.

    Anche nella sofferenza l’uguaglianza non esiste. Il gradiente di sopportazione della sofferenza è estremamente differenziato. Vi sono persone che non sopportano neanche l’idea di soffrire. Vi sono persone che vivono male nella sofferenza. Vi sono persone che nella sofferenza esprimono il meglio di sé. Vi sono persone che amano soffrire. Non c’è scandalo. Ciascuno ha diritto di vivere al suo livello di sopportazione.

    Chi può sapere veramente se quanto e come si soffre nella dipartita.

    Ciascuno ha diritto di pensare ciò che vuole della vita e della morte, quando inizia la vita e quando comincia la morte, cosa c’è prima della vita e cosa dopo della morte.

    Sul fatal caso, ciascuno ha diritto di tenersi i propri pensieri le proprie idee e le proprie credenze.

    Solo con la forza di tali premesse le parole acquistano senso. Anziché parlare di buona morte meglio parlare dunque di morte indolore, di analgotanasia, posto ma non assodato che il dolore o la sua assenza al momento della dipartita siano comparabili con quelli esperiti nella restante vita.

    Se l’eutanasia è aberrazione meglio optare per il suicidio assistito a condizione che non sia lo Stato a comminare la morte del suicida assistito.

    La differenza tra suicidio e suicidio assistito è

    abissale. Con il suicidio ciascuno può di propria mano infliggersi la morte indipendentemente dalle condizioni di salute.

    Ogni condanna di tal gesto è inutile e presuntuosa, in ogni caso tardiva. Si può

    affrontare il problema del suicidio in chiave pedagogica e sociale, ma qualsiasi singulto moralistico è fuori luogo. Dividersi tra stoici, favorevoli, ed epicurei, contrari, ha scarso senso.

    Il suicidio assistito invece riguarda quei casi nei quali, vista l’intollerabilità della sofferenza, assodata l’assenza di speranza, viene prestato suicidio aiuto senza passare per gli spesso tristi sentieri del suicidio.

    Il suicidio assistito può avvenire in due forme. La prima prevede che il medesimo suicida compia l’atto finale somministrandosi un farmaco o ordinando la fine dell’accanimento terapeutico.

    La seconda, laddove l’atto autonomo risulti impossibile, prevede che altri somministrino il farmaco o ordinino la fine dell’accanimento terapeutico in vece del suicida.

    In quest’ultimo caso: chi deve prestare materialmente aiuto? Chi deve somministrare il farmaco o ordinare la fine dell’accanimento terapeutico? Chi è giusto che si assuma questa responsabilità? A chi

    deve essere richiesta responsabilità così delicata? A un ente estraneo e terzo o a una persona di prossimità? A qualcuno a cui freddamente viene demandata una tecnicalità o a qualcun altro in grado di compiere un gesto caldo e amorevole.

    Non si dovrebbero nutrire dubbi in proposito, ma coltivare certezze. La responsabilità e l’atto del suicidio assistito dovrebbero tangere esclusivamente le persone di maggiore prossimità. Coniugi, figli, parenti, amici indicati preventivamente in testamento biologico e preventivamente d’accordo. Solo in assenza di persone di prossimità andrebbe ricercato un aiuto terzo, di volontari, ma mai dello Stato per mano di suoi funzionari.

    Lo Stato, le strutture mediche, devono solo predisporre che le cose avvengano in modo chiaro e congruo onde evitare confusione e abusi.

    Così tra l’altro si ovvierebbe ai casi, si presume numerosi, di obiezione di coscienza.

    Lo Stato deve essere sottratto con ogni forza al ruolo di comminatore della morte.

    Lo Stato può e deve permettere che il suicidio assistito avvenga. Lo Stato può e deve regolarlo, senza mai comminarlo in proprio.

    Il suicidio assistito è già praticato ma andrebbe diffuso universalmente sottraendolo al privilegio, agli abusi e al lucro.

  • Europa mundi – Pianetica

    Europa mundi – Pianetica

    Europa non è europea. Lo dice il mito.

    L’Europa non è solo europea. Lo chiarisce la storia.

    La geografia lo mostra: Europa è pregna di sconfini che rendono ardui e mutevoli i tentativi di definirla in una sua fisicità. E i mari e l’Atlantico, a suon di flutti, ora la dividono ora la uniscono al suo restante mondo.

    L’Europa è uno spazio alquanto indefinito che smargina il tempo e sopporta le sue slabbrature.

    In summa, l’Europa, che è anche europea, ha nei suoi geni i caratteri di Europa mundi.

    L’Europa esiste solo in quanto è Europa mundi. L’Europa del mondo.

    L’esplodere della crisi afghana ha reso baliosi e incontinenti i lamenti sull’inconsistenza militare dell’Europa, sulla necessità che essa crei un esercito proprio, rafforzi in armi la sua difesa, si metta al pari delle altre grandi potenze per giocare un ruolo analogo nei destini del mondo contemporaneo. Tali posizioni, prive di contraddittorio, nuocciono non solo all’Europa ma al mondo intero e mettono seriamente in pericolo i suoi abitanti.

    Per offrire una diversa chiave al problema, è utile chiedersi:

    Cos’è l’Europa?

    Qual è la sua forza?

    Dove inizia, dove finisce, quando e come si definisce? È uno spazio politico o è una politica dello spazio?

    La politica vive nell’imperituro imbarazzo di misurare l’Europa. Quanto è grande?

    Quanto è piccina?

    L’ossessione per la precisione tiene l’errore in agguato.

    Eppure, è possibile, forse anche conveniente, prendere le misure dell’Europa in modo non autistico, concependole come espressioni di relazione tra l’Europa e il suo mondo che è Europa solo se è l’intero mondo.

    Le misure dell’Europa come unità di relazione anziché come identità assoluta permettono di concepirla grande in grazia della sua piccolezza militare e piccina quando manifesta pruriti di grandezza.

    Al contrario di ciò che il canone politico ritiene, la forza dell’Europa sta nella sua debolezza militare, la sua consistenza strategica è direttamente proporzionale all’inconsistenza dei suoi armamenti, il suo benessere non è limitato dalla sua scarsa forza bellica ma è seriamente messo in pericolo dalla sua,

    per ora solo accennata, volontà di potenza.

    Inoltre, se l’Europa provasse a superare il gap militare con le altre grandi potenze, quanto tempo impiegherebbe? Con quali costi? E nella corsa agli armamenti, non finirebbe dissanguata come l’URSS?

    Ogni soggetto politico ritiene sempre valida l’equazione potere militare=forza economica.

    Ogni soggetto politico desidera aumentare la sua sfera d’influenza ritenendo così di

    ottenere enormi vantaggi competitivi.

    Le sfere d’influenza un tempo cristallizzavano le gerarchie di potere planetario. Ora sono ingiallite mummie dell’impotenza globale.

    Ma l’Europa non è un soggetto politico pari agli altri. L’Europa unita – una prima, larvale espressione dell’Europa a venire – deve il suo potere alla sua flebile potenza bellica. L’Europa unita non nasce da una grande vittoria militare, ma dall’infamia della più grande sconfitta.

    L’Europa unita è resa possibile solo dall’abbraccio tra nemici inceneriti dalle proprie guerre dopo secoli di contesa del medesimo spazio.

    La politica è tarda di memoria. Eppure chiunque, nell’ultimo tempo, abbia puntato sull’intervento militare, ha ricevuto solo reiterate umiliazioni sul campo,

    ottenendo in più solo svantaggi in termini di penetrazione economica e di controllo delle aree geografiche interessate. Di contro, i paesi al riparo dalla competizione militare e dai suoi immensi costi di protezione, hanno avuto ritmi di sviluppo prodigiosi.

    Le macerie sono il mercato ideale per le armi ma il mercato delle armi da almeno un secolo è un’infinitesima parte del mercato totale.

    I mercanti di armi non sono solo stolti assassini, sono anche dei pessimi mercanti.

    Anche l’Europa ha i suoi Afghanistan: tra gli altri, la Siria e la Libia dove più paesi che si pretendono europei hanno pensato stoltamente di inzupparsi nel torbido sicuri di ottenere notevoli vantaggi.

    Dal Vietnam alla Libia, passando per l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, gli attori politici del mondo intero si comportano come vivessero ancora ai tempi di Machiavelli. Ma le regole della guerra sono nel frattempo completamente mutate.

    Le vere guerre del presente non si vincono con le armi, anzi si perdono con esse.

    Per vincere davvero una guerra nello spazio terrestre bisogna evitare accuratamente di usare le armi. Solo chi ci riesce può ritenersi vittorioso.

    I contendenti di una guerra a base d’armi sono

    sconfitti già prima di iniziare a combattere indipendentemente dall’esito militare del conflitto.

    Le armi sono solo zavorra di cui liberarsi se si vuole volare.

    È in ambiente extraterrestre lo spazio prediletto delle guerre prossime venture.

    Nello spazio extraterrestre e nel giuoco. Il rapporto tra giuoco e guerra si è invertito.

    Un tempo il giuoco simulava la guerra. Ora è la guerra a simulare il giuoco. Non è più il giuoco a preparare gli umani alla guerra, ma al contrario, la guerra a preparare gli umani al giuoco.

    Per l’economia globale l’esercizio delle armi ha un effetto molto più inibitorio che benefico.

    Per esportare la qualsiasi cosa non servono le armi. Le informazioni in forma di idee, di spettacolo, di bit, di denaro e di relazioni bastano e avanzano.

    Il multipolarismo, il bipolarismo o l’impero non funzionano più. Resistono come antichi retaggi di una storia consunta. Sconfitta irrimediabilmente dalle sue stesse armi.

    L’Europa non è condannata a rimanere un soggetto politico, ma a divenire un vettore pianetico.

    L’Europa vettore pianetico. Cosa vuol dire? Vuol dire che, proprio in virtù della sua inconsistenza militare, l’Europa è costretta a guardare il pianeta da

    altra prospettiva.

    Non come parte in ansia di conquistare il tutto, ma come parte di un tutto interamente da definire e da condividere, oggi, domani e sempre.

    Il carattere dell’Europa è oblativo. Il suo disinteresse è nell’interesse del mondo intero.

    L’Europa per riconoscersi ha bisogno di specchiarsi nel pianeta.

    Ogni altro luogo non può che guardare all’Europa se l’Europa si sottrae allo sguardo proprietario.

    Il Pianeta è uno spazio aperto in cui chiunque è in grado di giocare la sua parte a condizione che tutti possano giocare senza carte truccate dalle armi.

    Non ha senso tentare di esportare la democrazia o di imporre i propri valori. Essi, se hanno sensibilità, affetti e forza diffusiva, si impongono da sé senza bisogno di agenti autoritari e armati a esportarli.

    I valori dell’Europa, ammesso che qualcuno riesca con precisione a definirli, non sono migliori o peggiori di altri. Ciascuno li vede tali solo se indossa gli occhiali dell’identità che rendono ciechi anche i falchi.

    Non c’è bisogno di modelli. Il pianeta si modella secondo le sue volontà che sono

    molteplici, come i suoi valori, e sempre in discussione poiché in perenne gestazione.

    Riconoscersi peggiori o migliori è l’atto principiale del disastro.

    L’Europa non aspira a nessun primato.

    L’Europa è prima in ogni cosa come ogni altra cosa.

    Prima tra tutti i primi resi tali solo se si abbandona la folle voglia di diventare primi degli ultimi o primi fra gli ultimi.

    Non avere alcun primato da salvaguardare o da rivendicare è la condizione fondamentale per divenire primi anche tra non pari. Per divenire prima in tal guisa l’Europa non può che abdicare alla forza militare rendendo così più forte il pianeta sia nel suo insieme sia in ogni singola parte.

    Ciò che si prospetta non è un mero modello pacifista. La pace è la condizione agognata di ogni guerra. Guerra e pace sono gemelli siamesi. Nella contesa chiunque è colpevole tranne i disertori e gli abdicanti.

    La geopolitica dell’Europa fa cilecca.

    La politica, nata in quello spazio definito Europa, qui ha mostrato il suo fallimento.

    Non c’è governo della polis senza governo del pianeta. Ma il governarsi del pianeta non è affare di comandanti militari, di condottieri, di produttori d’armi.

    L’Europa ha bisogno di difendersi. Ma la sua più grande difesa non sono gli eserciti, il nucleare, le armi. La sua difesa massima è l’intelligenza. L’intelligenza che è l’esatto contrario dell’intelligence. Non sono i servizi segreti a tenerla in salvo. Sono invece

    i servizi evidenti.

    Intorno al covid, alle questioni monetarie e al cambiamento climatico Europa mundi ha iniziato molto timidamente a intravedersi.

    Se il pianeta è libero, l’Europa lo sarà. Se il pianeta è salvo, l’Europa non mancherà di godere della sua salvezza. Se il pianeta è ricco, l’Europa non si trastullerà nella miseria.

    L’Europa è la placca dell’idea di mondo necessaria per bloccare la deriva politica di questo come di ogni altro spazio incontinente.

    Europa mundi è terra, oceano, cielo. Europa mundi è in Asia, è Africa. Europa mundi è sponda del mondo intero. È il mondo nuovo di ogni mondo. Ed è il mondo di ogni nuovo mondo.

  • Il comunismo

    Il comunismo

    Il comunismo é il tempo dedicato alla dimensione comune e sociale.

    Pratichi concretamente il comunismo ogni volta che fai sport o ti dedichi alla tua crescita personale e alla crescita degli altri, quando fai volontariato, quando ti dedichi ai tuoi cari quando viaggi per svago e fai il turista, quando cioè puoi dedicarti, oltre che al lavoro necessario per produrre il reddito che ti consente di vivere, anche al tempo extra, al tempo condiviso, solidale, comunitario.

    Questa è l’unica definizione rigorosa, fondata, filologica, del comunismo secondo Karl Marx.

    Nel corso di due secoli, specie in Europa, c’è stato molto comunismo realizzato.

    Questa affermazione é evidentemente fondata solo che si consideri che questo stile di vita, quando Marx era in vita era appannaggio solo delle persone molto ricche. Tutti gli altri, cioè i trisavoli della quasi totalità delle persone che stanno leggendo, per mangiare doveva lavorare dall’età di sette -otto anni per sei sette giorni a settimana, per 10–12 ore al giorno, finché non moriva di malattie e di stenti. Marx voleva liberare le persone dal lavoro salariato, da quel lavoro salariato confidando nella capacità del sistema produttivo industriale implementato dalla borghesia grazie al capitalismo (si, proprio dalla classe borghese e dal capitalismo di cui Marx era un estimatore), il comunismo é ottenuto mediante la proprietà comune dei mezzi di produzione. La proprietà comune non è la proprietà di Stato.

    • ‘Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico‘.

    K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24

  • Vassalli o liberi dagli americani?

    Vassalli o liberi dagli americani?

    Abbiamo dichiarato guerra agli Stati Uniti nel 1941. Dopo avergli spedito milioni di emigranti italiani e senza che gli USA ci avessero torto un capello. E pure a tradimento gliel’abbiamo dichiarata, poche ore dopo che avevano subito la coltellata alla schiena dell’attacco a Pearl Harbor.

    E abbiamo perso la guerra.

    Sono arrivati, ci hanno cacciato dall’Africa, ci hanno invaso e alla fine ci hanno sconfitto. E non contenti, ci siamo divisi in due e una metà dell’Italia ha continuato a combattere contro gli americani.

    Chiunque altro ci avrebbe massacrati, triturati nel macinino da caffè e utilizzato la polvere come concime, trasformando l’Italia nel 51° stato dell’unione.

    Invece, non solo non ci hanno massacrati, né hanno massacrato i nostri emigrati. Ci hanno dato una mano a liberarci dai nazisti, ci hanno finanziato la ricostruzione e oggi siamo del tutto liberi di fare domande come questa e di scrivere una marea di risposte e commenti antiamericani che una marea di imbecilli non tarderà a postare.

    Direi che possiamo considerarci alleati. E fortunati.

    Dall’altra parte, sono stati invasi, conquistati, massacrati e occupati. E se qualcuno si azzardava a dire una parola contro i sovietici, finiva per concimare i licheni in Siberia. Non a spargere concime. Proprio lui diventava concime. E oggi con la Russia è lo stesso: se ti va bene finisci in galera, se ti va male ti entrano in casa con i carri armati, dopo una spruzzata di razzi e bombe come aperitivo.

    Direi che quelli erano (e qualcuno lo è ancora) vassalli.

  • Eco – chi odia l’italia

    Eco – chi odia l’italia

    l’Italia è odiata in tutto il mondo?

    New York. Erano gli anni ottanta.

    Umberto Eco salì su un taxi e l’autista notò che portava con sé dei giornali italiani e, quindi, gli chiese per averne certezza: <<Mi scusi, signore! Ma lei è italiano?>>.

    Eco rispose: <<Si, lo sono!>>.

    Mentre continuava a guidare il tassista gli disse: << Senta le volevo chiedere una cosa. A voi italiani, nel mondo, chi vi odia?>>.

    Eco: <<Come, scusi?>>

    Il tassista esclamò: <<Ma sì dai! Tutti i popoli vengono odiati da qualche altro popolo. A noi americani ci odiano tantissime persone come i russi o i palestinesi, e potrei stare qui ad elencarne altri per un quarto d’ora. Quindi, a voi italiani chi vi odia?>>.

    Eco sorpreso per questa domanda si limitò a dire: <<Ma guardi, nessuno ci odia!>>.

    Il tassista ci rimase quasi male di questa risposta e dopo un po’ gli chiese: << Scusi, ancora signore. Ma se a voi italiani non vi odia nessuno, invece, voi chi odiate? Perché tutti i popoli odiano un altro popolo. Gli americani odiano: i messicani, i cubani o i nativi, per esempio. E molti altri. Voi, invece, chi odiate?>>.

    Eco ci pensò e disse: <<Nessuno! Non odiamo nessuno sul piano internazionale.>>

    Il tassista ci rimase nuovamente male di questa risposta.

    Umberto scese dall’auto e mentre camminava per le strade della città pensò che in realtà c’era una risposta ad entrambe le domande. Gli sarebbe piaciuto rincorrere quell’uomo, bussare nel finestrino, per dirgli: <<Mi scusi. Vorrei rettificare. Le ho detto che noi italiani non odiamo e non siamo odiati da nessuno, ma avrei dovuto aggiungere che per compensare siamo formidabili ad odiarci a vicenda. Internamente. Su questo non ci batte nessuno.>>.

    Noi italiani odiamo tantissimo noi stessi. Il nostro stesso paese. Forse lo amiamo, da un canto, ma dall’altro lo odiamo più di qualunque altro.

  • Cause guerra Ucraina

    Cause guerra Ucraina

    Lo storico greco Polibio diceva che le guerre hanno tre cause:

    1. La profasis: la scusa raccontata al popolo per giustificare il conflitto e il sacrificio.
    2. L’aitia: la causa effettiva della guerra, riscontrabile spesso in un interesse economico.
    3. L’arché: l’evento o la scusa che porta, in concreto, all’inizio della guerra

    Tali aspetti si possono riscontrare in tutti i conflitti, basti pensare alla prima guerra mondiale. In essa, l’arché (la scusa), è stato l’omicidio dell’arciduca Ferdinando d’Austria e della moglie ad opera di uno studente serbo. L’aitia, cioè il vero motivo, era il controllo dei Balcani.

    Nella guerra di secessione americana, il motivo apparente (profasis) era la liberazione degli schiavi dal sud del paese, ma la vera ragione era che il nord non riusciva a competere contro i prezzi troppo bassi del sud dovuti alla manodopera gratuita. Inoltre, al nord servivano operai per le industrie e gli schiavi potevano essere una soluzione. L’arché è stata la dichiarazione di indipendenza di alcuni stati meridionali.

    Nell’Unità d’Italia la profasis è stata l’unificazione nazionale, ma l’aitia è stata la paura dell’Inghilterra nei confronti dell’espansione francese verso sud e l’economia sempre più crescente dei Borboni.

    Ora, ritornando all’Ucraina.

    La profasis è la scusa russa di “denazificare” l’Ucraina. Una paura ancora viva in Russia. Una parte dell’Ucraina orientale aveva chiesto l’indipendenza i quanto si sente vicina all’identità russa. Vi furono delle repressioni assai sanguinose con dei crimini contro l’umanità compiuti da Kiev e riconosciuti nel 2016 dall’ONU. Alcuni battaglioni ucraini erano famosi per essere spalleggiati da estremisti di destra. Il presidente Zelensky non ha mai preso le distanze da questi eventi e ciò ha incrementato la profasis.

    L’aitia, il vero motivo, è riscontrabile sul fronte economico. La Russia ha investito molto nella parte orientale dell’Ucraina. Essa è anche la zona più ricca di risorse, come il grano e giacimenti minerali. Possiede i più grandi giacimenti di litio: metallo sempre più richiesto per la realizzazione di batterie. Vi sono anche tante centrali nucleari e parecchia manodopera. Inoltre, vi è il passaggio dei gasdotti, per cui gli ucraini volevano rivendicare il diritti di passaggio.

  • Il dramma di Meloni

    Il dramma di Meloni

    Per chi crede ancora nelle ragioni della buona politica, il Riformista fa un regalo prezioso: le riflessioni di uno degli ultimi “Grandi vecchi” della politica italiana: il senatore Rino Formica.

    In molti hanno parlato e scritto di quelle del 25 settembre come di elezioni “storiche”. Lei che la storia politica italiana l’ha vissuta per decenni da protagonista, come la vede?
    In questo Paese diventa storico il suono della sveglia. Quel voto è una sveglia. Il Paese era nell’area della tranquillità, della serenità. Nella politica italiana vi sono due periodi fondamentali: uno fino al ’92 e poi quello dal ’92-’94 e seguenti. Sino al ’92 questa tranquillità di fondo veniva data da un forte rapporto fiduciario tra il cittadino e la democrazia organizzata. Era quasi un rapporto di carattere religioso. È come la fede nella religione. Anche la religione ha un problema di rapporto tra fede e ragione. Nella fase di sviluppo naturale della democrazia in Italia, nei primi 40-50 anni di vita repubblicana, essa era in parte legata alla ragione delle classi dirigenti e in parte alla fede di massa. Il legame tra fede di massa e ragione delle classi dirigenti portava ad una sintesi tra fede e ragione. Questo si è rotto all’inizio degli anni ’90.

    Perché senatore Formica?
    Perché è venuto meno il sistema di rete della democrazia organizzata. Questa mancanza di rete della democrazia organizzata è stata interpretata dalle classi dirigenti, che si sono immediatamente adeguate al nuovo corso dimostrando così tutta la natura profonda dell’opportunismo e del trasformismo di cui erano intrise ma che era coperto da una condizione che era propria della democrazia organizzata, e così abbiamo avuto un progressivo distacco tra masse popolari e non solo la democrazia organizzata nell’interno del sistema ma un distacco con le istituzioni. Questo distacco dalle istituzioni non modificava le condizioni di diseguaglianza di carattere economico, sociale, civile e territoriale del Paese. Quelle restavano tutte in piedi e questo in un mondo che stava cambiando con la globalizzazione. E la globalizzazione portava a un nuovo e diverso livello le conoscenze di massa in sede globale. L’elemento della coscienza per via di conoscenze da parte delle masse nel mondo, non aveva però un elemento coagulante e unificante su scala globale. Perché su scala globale restava unificante la forza impetuosa del capitalismo che sganciato dai compromessi nazionali diventava sempre di più una forza di un imperial capitalismo. Questo imperial capitalismo era sbilanciato. Perché da una parte era l’imperial capitalismo tutelato da minoranze detentrici del potere dell’ineguaglianza nella società e dall’altra parte vi erano le grandi masse che prendevano coscienza che non era sufficiente la presenza ma il protagonismo per cambiare le condizioni andando al cuore del capitalismo imperiale. Tutto questo poneva un problema…

    Quale?
    Il problema che quello che era stato detto e gabellato e cioè che la società evolvendo, il progresso di carattere economico e la diffusione del benessere nel mondo sia pure in parti ineguali, spegneva la lotta di classe. La lotta di classe c’è. Sicuramente è più complicato poterla interpretare e poterla guidare perché le classi non sono più regolabili in un conflitto sociale su base nazionale ma su base universale dove le lotte di classe sono differenziate, ineguali e diverse tra di loro. E qui nasce il problema.

    Di che problema si tratta?
    Se si osserva bene, si coglie il fatto che le uniche forze che hanno un elemento di unificazione a livello sovranazionale sono le grandi religioni. Le grandi religioni hanno percepito questo elemento di inquietudine generale. Il mondo è inquieto. Cosa vuol significare il Papa quando dice che bisogna cambiare il modello di sviluppo? Questo era il linguaggio che negli anni ’70 era degli extraparlamentari. Cambiare il modello di sviluppo. Cioè si pone il problema della inadeguatezza dell’imperial capitalismo. Ma le religioni non sono in condizioni di condurre una lotta politica perché per condurre una lotta politica le religioni devono perdere il loro carattere universale e diventare nazionali. Come lo è diventata improvvisamente la Chiesa ortodossa russa che ha dovuto perdere il carattere universale e ha dovuto affermare, per diventare nazionale, che c’è una sanatoria dei peccati se vai a combattere in Ucraina. Resta il fatto, enorme, che le religioni universali pongono il problema non solo dell’inadeguatezza ma della ingiustizia intrinseca, strutturale, di quei processi politici, economici e sociali che non soltanto non hanno attenuato le condizioni dell’ineguaglianza ma che hanno esasperato le vecchie ineguaglianze e creato delle nuove. Qui sta la crisi della politica e delle sue forme organizzate. Il non essere all’altezza di questa sfida del cambiamento globale e globalizzato. D’altro canto la storia del Novecento sta lì a ricordare che il capitalismo quando si è trovato in difficoltà è diventato repressivo e guerrafondaio. E questo può accadere anche con l’imperial capitalismo che, messo alle strette o comunque in difficoltà, trova la soluzione della guerra. Noi ci troviamo di fronte al rischio che la riflessione di carattere politico generale della nuova globalizzazione delle conoscenze, che potrebbe spingere l’umanità a creare delle forze internazionaliste di organizzazione delle condizioni umane differenziate che ci sono nella società, i deboli con i deboli contro i forti che sono una minoranza non solo nelle realtà nazionali ma sempre più minoranze nell’assetto globale, si possa bloccare questo processo di riflessione attraverso una espansione del conflitto oggi in Europa e domani chissà dove.

    Quelle che lei ha fin qui sviluppato sono riflessioni di portata epocale. Ma venendo alla politica italiana, lei non ritiene che una sinistra o comunque una forza progressista, il Pd, per provare a ritrovare ragione di sé proprio su queste grandi tematiche dovrebbe cimentarsi e non avvitarsi nella spirale mortifera di una resa dei conti sul nuovo segretario?
    Ma porta su di sé il peso enorme di trent’anni in cui ha sposato la linea dello svuotamento del sistema politico. La sinistra è stata artefice dello svuotamento politico del sistema. E qui sta il suicidio politico. Perché lo svuotamento politico del sistema colpiva innanzitutto la sinistra.

    Perché, senatore Formica?
    Vede, i conservatori hanno una politica oggettiva che cammina da sé. Conservare l’esistente. A sinistra la politica è intrecciata indissolubilmente al cambiamento. E quando questa politica viene meno all’interno del sistema, viene meno l’esigenza del cambiamento e con essa la sinistra stessa. Ciò che ci si dovrebbe chiedere, l’interrogativo attorno al quale provare a sviluppare una riflessione collettiva dalla quale dipende l’esistenza stessa futura della sinistra, è perché la sinistra è andata progressivamente perdendo consenso, entusiasmo, passione, capacità di essere forza creativa nella società, capace di modificare, di innovare, di riformare. Perché?

    Una domanda “esistenziale”. Qual è la sua di risposta?
    Perché si è lasciata guidare dalla destra. Il minimalismo sociale è una scelta ideologica. Il minimalismo sociale non può non produrre che il populismo massimalista. L’indifferenza istituzionale non può non provocare che l’abbandono della via democratica alla costruzione del proprio sistema di vita e all’ingresso di forze dominanti che finiscono per diventare prima reazionarie e poi repressive. Ecco perché hanno ragione coloro che dicono che la responsabilità non è del gruppo dirigente in carica nel momento dell’ultima clamorosa sconfitta della sinistra. La responsabilità è di tutta quanta la classe dirigente, il ceto politico dominante della sinistra da trent’anni a questa parte, accumulando una serie impressionante di errori. Alcuni dei quali sono partiti non con la consapevolezza dell’errore ma come una furbizia per mimetizzare la propria determinazione di rovesciare il tavolo senza che nessuno se ne accorgesse, spacciando una presunta furbizia per machiavellica capacità tattica. Ma alla fine la legge bronzea della quotidianità del vivere ha fatto sì che il trasformismo delle classi dirigenti sia diventato un trasformismo per adeguamento e per rassegnazione delle masse popolari. Ma di questo non possono godere neanche i vincitori di queste elezioni, cioè Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni. Vuol sapere qual è il vero dramma della Meloni?

    Sono tutto orecchie, senatore Formica.
    Lei avrebbe avuto tanto, ed era attrezzata per poterlo fare, un gran desiderio di poter essere l’Evita Peron della socialità di massa populista in Italia. Ma sarà condannata dalla forza delle cose ad essere una burbera Thatcher senza neanche avere l’autonomia della guida. Perché la guida spetta ad altri. Su sede sovranazionale. Ne vuole la prova?

    Certo che sì.
    Questa maggioranza si riunirà il 13 ottobre. Con la maggioranza che ha, con il tempo che ha avuto per ristabilire l’ordine al proprio interno, per avere la certezza di una maggioranza di governo, in tre giorni Meloni avrebbe potuto definire gli organismi dirigenti interni, eleggere i suoi organi di rappresentanza in Parlamento, avere l’incarico dal Presidente della Repubblica e presentare in ventiquattr’ore il nuovo Governo. Sarebbe stato un gesto corrispondente al superamento di una legge elettorale balorda. Almeno si poteva dire di lei che in tre-quattro giorni aveva saputo eleggere gli organi per l’efficienza del Parlamento e gli organi di Governo del Paese. Invece no. Il “lord protettore” le ha detto che il 20 di ottobre alla riunione dei capi di Governo dell’Unione Europea va lui. E che la campanella passerà di mano alla fine di ottobre. E la Meloni non ha risposto con l’orgoglio di una maggioranza indicata dal voto popolare, sia pure con una legge balorda, e insediata in Parlamento, col dire: no il 20 ci sarà probabilmente il nuovo Governo e a quella riunione ci sarò io che di quel Governo sarò la premier.

    Quando fa riferimento al “lord protettore” della premier in pectore, il suo nome e cognome è Mario Draghi.
    Mario Draghi adesso ma chi per lui domani. Un “lord protettore” che guiderà la destra italiana a stare nel solco del conservatorismo parassitario europeo ci sarà comunque. È la funzione che conta non il nome di chi sarà chiamato ad esercitarla. Noi siamo sotto protettorato. Oggi il “lord protettore” più credibile sul piano internazionale e più disponibile per il momento è Draghi. E probabilmente lo sarà. Sicuramente per il primo semestre di questo Governo.

  • Forse il tempo del sangue

    Forse il tempo del sangue

    Forse il tempo del sangue

    Forse il tempo del sangue ritornerà.
    Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
    Padri che debbono essere derisi.
    Luoghi da profanare bestemmie da proferire
    incendi da fissare delitti da benedire.
    Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
    alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
    nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
    Al partito che bisogna prendere e fare.
    Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
    lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
    con loro volere il bene fare con loro il male
    e il bene la realtà servire negare mutare.

    Franco Fortini

  • La dettatura europea

    La dettatura europea

    Sovente viene evocata a sproposito la nozione di dittatura: dittatura sanitaria, dittatura di Bruxelles…

    La dittatura evocata esprime il timore pallido – non la convinzione granitica – che il potere politico si concentri in un solo organo o in una sola persona.

    Al timore agito enfaticamente e demagogicamente su ogni genere di media si accompagna tutto un lamento inscenato e insensato sul bisogno di politica e sui guasti dell’antipolitica. La politica viene richiesta a gran voce come nobile rimedio per ogni situazione mentre è essa, la politica, la causa di tanti problemi. Il motivo è semplice: la politica è organicamente incapace di far fronte alle questioni preminenti della contemporaneità i quali necessitano di uno sguardo largo e cooperativo, pianetico, non dello sguardo miope e proprietario tipico della politica. [1]

    La politica non è una leva di progresso, ma solo una componente macchinale e consunta dell’organizzazione sociale.

    La nozione di dittatura poco serve a visualizzare l’immagine dei poteri politici presenti, non solo in Europa.

    Più utile potrebbe risultare la nozione di dettatura.

    Per quanto abbiano delle affinità linguistiche e musicali, la dettatura è ben diversa dalla dittatura ma non è di minore importanza.

    Differentemente dalla dittatura, la dettatura indica una situazione nella quale le decisioni da prendere sono storicamente segnate. La dettatura è indifferente agli organi o alle persone, si enuncia con le cose in divenire, con le cose da realizzare indipendentemente dalle persone che la interpretano.

    La dittatura nasce da uno stato incerto e dalla speranza che la forza ( di una persona o di un partito) sia in grado di risolvere i problemi.

    La dettatura nasce invece dallo stato di certezza e dalla sicurezza che la strada intrapresa sia in grado, se non proprio di risolvere i problemi, di affrontarli al meglio secondo i canoni costituiti.

    La dittatura concentra il potere e lo personalizza.

    La dettatura al contrario rende possibile la massima diffusione del potere e ne istituzionalizza la parte macchinica, politica.

    La dittatura annulla la democrazia distruggendo tutti i suoi riti. 

    La dettatura è una più alta forma di democrazia perché mantiene intatti i suoi riti e rende possibile il massimo potere diffuso del demos sottraendogli ed evitandogli la responsabilità e la noia della decisione della macchina politica.

    La dittatura arriva dove la democrazia perisce.

    La dettatura dove la democrazia mantiene i suoi riti anestetizzandone gli spasmi.

    La dettatura non si fonda sul primato degli uomini, ma su quello delle cose.

    La dettatura è amnio e alveo entro cui si decidono e si producono le cose quando il cammino è ben segnato.

    La dettatura non è un limite della macchina politica o il canto del cigno della democrazia, ne è invece il  rituale compimento.

    L’indifferenza alla politica sotto il regime della dettatura non marca la generale insensibilità, anzi può avvenire in presenza di una sensibilità sociale diffusa capace di esprimersi in tutti gli altri campi della vita vivente.

    Nell’epoca della dettatura, la politica si muove entro binari definiti. Finché questi binari assicurano l’esercizio del potere diffuso, il potere rituale del popolo – i rappresentanti, le elezioni, le istituzioni – è salvo.

    La dettatura è dunque la forma che il potere politico assume quando la direzione è certa. In Italia e in Europa, in questo momento, l’orizzonte è chiaro.

    Ciò che occorre fare, ciò che si può fare, è già interiorizzato dalla macchina istituzionale che è avviata nella sua direzione.

    L’Italia è sotto dettatura. Comunque vadano le cose, per chiunque si voglia votare, il regime della dettatura comporta che le cose proseguano il loro corso nell’alveo già fissato da almeno 6 anni.

    L’amnio della dettatura è segnato:

    1. dal nuovo corso dell’Unione europea dopo l’uscita del Regno unito;
    2. dal ruolo di leadership che il Paese inevitabilmente deve avere in Europa;
    3. dal ruolo autonomo e pianetico che l’Unione europea inevitabilmente assume;
    4. dalla crisi climatica;
    5. dall’asimmetria demografica.

    Tali priorità rendono fantasmatiche le frontiere e necessiterebbero di una visione pianetica, la quale impone una totale messa in mora dei paradigmi della politica.

    In assenza di una visione pianetica, i governi sono costretti a comportarsi seguendo, magari in modo acefalo e tortuoso, l’onda.  Quando deviano dalla direzione di marcia sono costretti – dopo aver sbattuto contro la realtà delle cose – non da qualcuno ma da quella medesima direzione a riseguitare il cammino. In questo caso, mancando alla politica – per intrinseca deficienza – la capacità d’interpretare la direzione e di seguirla, tocca alle istituzioni dettare le regole, istituzioni generalmente guidate da persone indipendenti dalla politica o che si rendono tali in forza del loro ruolo istituzionale.

    La dettatura diviene il luogo della decisione effettiva al di là di ciò che deciderebbe la politica e in forza della sua impotenza.

    In regime di dettatura, alla politica tocca solo l’indispensabile ruolo di confermare tramite tutti i rituali del voto le decisioni già dettate dalle forza delle cose.

    L’Italia vive da tempo sotto la dettatura di Mattarella e di Draghi, ma anche in loro assenza la dettatura rimarrebbe in vigore. Solo in caso di rivolgimento regressivo e funesto della situazione la dettatura verrebbe meno.

    In caso di shock – uscita dall’UE e dall’Euro, indifferenza ai problemi climatici, distruzione dei diritti civili, guerra ai migranti -, quando si rischia che il cammino prestabilito venga disarcionato, allora si comincerebbe a sentire il lezzo della dittatura.

    Dettatura, democrazia e libertà

    L’Italia e l’Europa sono sotto dittatura? Ha ancora senso che ci siano le elezioni? Qualcuno pensa ancora di votare veramente? Se sì, per chi? Per che cosa? Gli eletti hanno voce in capitolo?

    E il parlamento, è in grado di decidere qualcosa?

    Tutte legittime domande poste ogni qualvolta in Europa si replica l’indispensabile benché esausto rito delle elezioni.

    Esausto perché privo di pathos, privo di passione, incapace di elevare anche il meno nobile impeto dell’animo umano, capace solo di intercettare qualche profanissimo interesse della mediocrità generale. Rito stancamente riprodotto su scene calcate da attori stinti, improvvisate passerelle di transeuntissimi protagonisti dell’ultima chiacchiera di cortile, pessimi presunti salvatori di patrie ormai estinte.

    Tutto questo orrifico circo della politica prolifera tra annoiati commentari ma anche tra estese voci che ostentano indignazione mentre piluccano nella consunzione generale.

    La storia quando è esausta non abbandona facilmente i riti. Spesso li conserva anche quando risultano botulinosi.

    Non è sragione la sua, anzi è raziocinio puro. I riti della politica infatti tanto sono esausti tanto risultano essere ancora indispensabili.

    La domanda alla quale occorre rispondere è proprio questa: perché ciò che esausto anziché perire in fretta prolunga all’infinito la sua agonia?

    La sfinitudine della politica si esprima con la massima impotenza nel rito elettorale.

    Nel rito elettorale non c’è la festa, non c’è l’attesa. L’entusiasmo non è di casa illo tempore.

    Per ridare un po’ di carica fibrillatoria alla noia elettorale ci sarebbe bisogno di qualche pallida o effettiva paura (il fascismo alle porte, l’aborto cancellato, l’invasione dei migranti).

    In effetti, in Francia, in Italia, in Svezia o altrove si è vista qualche minimale paura all’opera, ma poi inevitabilmente la paura sfuma in fretta. Chi ha vinto, chi ha perso e chi ha pareggiato nelle ultime elezioni, dopo qualche spasmo digitale, si rimette in carreggiata. La marcia della democrazia riprende a macinare i suoi felpati passi lungo il cammino della dettatura.

    Tutto sembra inutile, eppure tutto rimane così indispensabile. Perché?

    Perché, per quanto decerebrato, è nel rito elettorale che si coglie il carattere indispensabile della democrazia.

    Senza libere elezioni non c’è democrazia. Senza democrazia niente libere elezioni.

    La democrazia è nota per essere il peggiore regime politico esclusi tutti gli altri.

    Nonostante tutti i suoi limiti, non c’è regime politico migliore della democrazia. La democrazia è la più alta forma di politica. Lo è perché tutti i suoi ciclopici limiti intrinseci anziché assassinarla la rafforzano.

    La democrazia è il regime politico che rende possibile sentirsi universalmente liberi. Sentirsi liberi equivale a essere effettivamente liberi? Ovviamente no.

    È il sentirsi liberi al di là dell’esserlo effettivamente.

    Nella democrazia tutto può essere deciso finché le masse pensano di deciderlo tramite il voto.

    Il voto, questo esausto rito, è lì a dimostrare che la libertà è data proprio nel momento in cui essa viene meno.

    La democrazia è il regime della facoltà. La facoltà, in questo regime, conta più dell’effettività. La facoltà di votare, per esempio, conta più del voto. In effetti, una parte considerevole della popolazione non esercita il suo diritto.

    Nella facoltà si esprime l’intima connessione tra la simulazione e la realtà, tra la rappresentazione e l’espressione.

    La rappresentazione elettorale simula l’espressione sociale senza mai poterla realmente compiere.

    Tanto più la simulazione si tiene in vita tanto più l’espressione sociale è attiva.

    La simulazione – per quanto marginale –  è parte costitutiva della realtà. 

    La libertà ha a che fare con la facoltà. Essa si esprime nel suo esercizio, ma si esalta quando l’esercizio viene sospeso da chi lo possiede. La libertà non si esprime quando si ha l’obbligo di esercitarla ma quando è  facoltà che può non essere esercitata. Non c’è musica senza silenzio.

    La facoltà di votare fa sentire liberi, ma il non esercizio del voto – volontario, autonomo da ogni prescrizione – non è contrario della libertà, né la limita, tutt’altro. Ne è semmai intima espressione, privilegio afferente a chi presume che l’inesercizio del voto non metta in alcun modo a rischio il resto delle facoltà.

    L’indifferenza verso la politica nella contemporaneità, anziché marcare, come i più ritengono, l’insensibilità generale della popolazione, esprime questo privilegio. Simile privilegio si manifesta – soprattutto tra la popolazione giovane – riguardo alle attività e al tempo di lavoro.  Anche la scelta tra lavorare e non lavorare, tra attività autogestite o eterodirette, con tempi di lavoro limitati o espansi a tutta la giornata biologica va a marcare il tempo presente.

    La libertà esiste se c’è possibilità di scelta. La prima opzione – votare o non votare – non inibisce la libertà, anzi la esalta.

    Chi non vota perché non desidera esercitare la facoltà non è detto che si senta meno libero di chi si comporta in modo avverso, anzi.

    L’indifferenza verso il voto e verso la politica – anche se è espressione di variegatissime situazioni – indica comunque una diversa concezione della libertà.

    Tale concezione può esprimersi con due metafore, dei semafori e dei pompieri.

    Ciò che interessa alle persone comuni – ciò che le fa sentire libere, ciò che permette loro di essere libere – è che i semafori funzionino e che i pompieri intervengano celermente in caso d’incendio.

    Una volta tranquilla sui semafori e sui pompieri, chiunque può concentrarsi sui suoi interessi, sulla sua vita, indifferente al chiacchiericcio politico.

    Ma questo sentirsi liberi ha davvero a che fare con la libertà?

    Chi si sente libero non è detto  che non lo sia.

    Si sente libero chi crede di sviluppare i propri interessi, le proprie attitudini senza subire pregiudiziali limitazioni esterne.

    Chi si sente libero certamente lo è, ma ben al di sotto di quanto presume, ben meno delle reali possibilità. È libero fino ai limiti imposti dalla situazione. Se oltrepassa i limiti, se li vìola, se li sfida, la sua libertà se ne va a ramengo.

    La politica è un limite alla libertà o è una sua leva?

    La democrazia è il regime peggiore, esclusi gli altri, perché il potere del demos – che ufficialmente viene esercitato per suo conto dai rappresentanti o si esercita in modo diretto – rimane in buona parte al demos. Quel demos che delega volentieri la parte politica del potere come escamotage per trattenere tutto il resto.

    La democrazia permette che l’esercizio del potere diffuso marginalizzi nella società e nell’esperienza della vita singolare il ruolo della politica.

    Quel demos indistinto che ha interessi, passioni, gusti attitudini, attributi, comportamenti estremamente variegati. Più questa variegazione è in grado di esprimersi, meno è importante il potere sul demos. La politica si sgonfia in misura proporzionale alla crescita di questa variegazione.

    Tutto questo insieme esprime il vero status del potere contemporaneo. Intenderlo ancora come attributo unico o preponderante della politica è anticaglia priva di qualsiasi valore.

    Il potere diffuso è il miglior antidoto contro il potere politico.

    Alla politica rimane di governare a fatica soltanto la sua incapacità di governare. 

    La dittatura è l’espressione più nefasta della politica.

    La dettatura è un bagno di luce sul suo tramonto.

    Il tramonto della politica annuncia la necessità della pianetica.

    La dettatura è la fase necessaria e transitoria tra la politica e la pianetica.


    [1] Per approfondire la differenza tra la nozione di Politica e quella di Pianetica, vedasi Lettera al Presidente Putin, maggio 2022, rilasciata dalla news letter di Pianetica, e Pino Tripodi – Giuseppe Genna, Pianetica, febbraio 2022, libro autoprodotto disponibile al link https://milieuedizioni.it/product/pianetica/

  • NEGLI ANNI ’70 L’ESPERIMENTO “UNIVERSO 25” HA MOSTRATO CHE LA NOSTRA SOCIETÀ È DESTINATA AL COLLASSO

    NEGLI ANNI ’70 L’ESPERIMENTO “UNIVERSO 25” HA MOSTRATO CHE LA NOSTRA SOCIETÀ È DESTINATA AL COLLASSO

    Dal Diciottesimo secolo l’uomo si chiede fino a quanto potremo crescere come numero di abitanti sulla Terra. Se nel Settecento gli esseri umani sul Pianeta erano 700 milioni, i progressi tecnologici e una migliore qualità della vita hanno sostenuto una crescita demografica esponenziale a partire dal secolo successivo, per poi arrivare all’esplosione nel Novecento e ai 7 miliardi e 900 milioni di abitanti attuali. Tra le principali teorie legate al tema della sovrappopolazione, sin dall’Ottocento hanno avuto risalto quelle malthusiane, coniate dall’economista e filosofo Robert Malthus, secondo cui avremmo rischiato l’estinzione per una carenza di risorse dovuta alla crescita esponenziale della popolazione.

    Malthus ragionava per progressioni aritmetiche, con un approccio poi molto contestato. Ralph Waldo Emerson rispose alla sua teoria scrivendo che “Malthus, affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, dimenticò che la mente umana era anch’essa un fattore nell’economia politica”. Nel Novecento il dibattito si amplificò, e molti scienziati iniziarono a pensare che non era soltanto l’equilibrio matematico tra risorse e numero di abitanti il fattore determinante per un eventuale collasso della specie umana. Bisognava aggiungere altre componenti, e la principale tra queste era il comportamento dei singoli individui all’interno della società.

    L’etologo John Calhoun, nella seconda metà del Novecento, mise in atto degli esperimenti per dimostrare come non fossero le risorse limitate il pericolo maggiore per una società, ma quelle dinamiche sociali che riunì sotto il termine fogna del comportamento. Arrivò a questa conclusione dopo decenni di esperimenti sui roditori. Nel 1947 iniziò uno studio su una colonia di topi norvegesi inseriti in un recinto, accorgendosi che la popolazione non raggiungeva il numero previsto. Incuriosito da questo freno demografico, passò gli anni successivi ad ampliare i suoi studi per capire i meccanismi del blocco delle nascite. Nel 1962 condusse un altro studio comportamentale, stavolta usando dei ratti grigi, e notò lo stesso fenomeno dell’esperimento del 1947. Capì che per arrivare a comprendere scientificamente ogni passaggio dello studio avrebbe dovuto ricreare una vera e propria società dei topi, l’utopia perfetta. Nacque così l’Universo 25.

    John Calhoun, 1971

    Nel 1968, nel Maryland, Calhoun costruì l’habitat ideale per quattro coppie di topi. Risorse illimitate per l’alimentazione, temperatura ideale intorno ai venti gradi, nessuna interazione con i pericoli esterni, pulizia frequente dell’ambiente, uno spazio sufficiente per ospitare fino a 3.800 topi. Vennero scelti inoltre gli esemplari più sani forniti dal National Institute of Mental Health, inseriti in un recinto con cunicoli, zone separate per nidificare e distributori d’acqua continuamente in azione. Come previsto, i topi iniziarono a riprodursi, con un raddoppio della popolazione ogni 55 giorni. Sembrava il loro Eden, arrivarono a 600 esemplari in meno di un anno e tutto continuò a filare liscio. 

    Il primo problema riguardò la creazione di ruoli sociali all’interno della colonia di roditori. Una volta raggiunto un ampio numero di esemplari, non avvenne un ricambio generazionale, ma si venne a creare a tutti gli effetti una struttura gerarchica dove ogni topo difendeva il suo status, a costo di attaccare i propri stessi figli. Le femmine furono costrette a rintanarsi nelle zone separate per proteggere la prole, ma questo non bastò di fronte all’aggressività dei “maschi alfa”. Si arrivò a episodi di cannibalismo, e la mortalità dei cuccioli raggiunse il 96%. L’esasperata interazione sociale portò alla violenza per mantenere un ruolo di rilievo. Le femmine si nascondevano nei giacigli più alti per non essere raggiunte dai maschi, frenando drasticamente la riproduzione. Si arrivò dunque al pansessualismo, oltre che a una battaglia quotidiana in cui la prevaricazione era l’elemento fondante per non essere emarginati dalla società. Chi lo faceva, isolandosi dal gruppo e rinunciando a combattere, rientrava tra gli esemplari che Calhoun rinominò “i belli”, poiché il loro pelo non era lacerato dai combattimenti e l’alienazione li aveva preservati dalle ferite. I “belli” erano però ai margini della società, passando le giornate esclusivamente a nutrirsi in solitudine.

    Il numero massimo di esemplari non raggiunse i 3.800 ipotizzati da Calhoun, ma si fermò a 2.200. Intorno al seicentesimo giorno dall’inizio dell’esperimento il numero iniziò a calare drasticamente. Le gravidanze continuarono a ridursi di numero, con i piccoli che morivano alla nascita, e nonostante tutti i confort e le risorse illimitate a disposizione, la società dell’Universo 25 finì per collassare. Si arrivò all’estinzione per l’incapacità di mantenere un equilibrio sociale. Fu quella che Calhoun definì “la prima morte”, quella sociale, che precedeva la seconda, quella fisica. L’ultimo topo morì nel 1973, cinque anni dopo l’inizio dell’esperimento.

    Nello stesso anno Calhoun scrisse le tesi del suo esperimento in una pubblicazione dal titolo Death squared: the explosive growth and demise of a mouse population. L’etologo parla dell’Universo 25, ma in realtà lancia un monito alla specie umana. In un passaggio scrive: “Non importa quanto sofisticato l’uomo creda di essere, una volta che il numero di individui in grado di ricoprire un ruolo sociale supera largamente il numero di ruoli disponibili, la conseguenza è la distruzione dell’organizzazione sociale”. Parla inoltre della fogna del comportamento spiegando come le risorse illimitate siano state in realtà un’aggravante per le lotte interne, potendosi concentrare soltanto sull’interazione e non sulla sopravvivenza. Negli anni successivi, gli studi di Calhoun sono stati ripresi non per spiegare il comportamento degli animali, ma per fare un parallelismo con la nostra società.

    A mezzo secolo di distanza, l’Universo 25 richiama per certi aspetti il mondo in cui stiamo vivendo. La lotta per un posto nella società si è inasprita con la diminuzione dei ruoli da occupare, come dimostrano i tassi di disoccupazione giovanile in molti Paesi del mondo. Anche l’illusione delle risorse illimitate che per anni ha caratterizzato la filosofia delle nazioni industrializzate non garantisce nessun sollievo ai suoi abitanti, ma alimenta in molti l’istinto di prevaricazione sui propri simili. E, anche in questo caso, si arriva all’isolamento.

    I “belli” di Calhoun che rinunciano alla società possono essere equiparati ai waldgänger del filosofo tedesco Ernst Jünger, che si ritirano nella foresta, o agli hikikomori. Si isolano, abbandonano le interazioni sociali per difesa e per necessità. E non sono spinti da angustie economiche o da carenze di risorse. Le teorie malthusiane stonano con alcuni dati dei giorni nostri. Le nazioni con più risorse e più avanzate tecnologicamente sono anche quelle con il più alto tasso di suicidi. Il continente con il Pil pro capite più basso, ovvero l’Africa, è quello con il tasso di suicidi più basso, mentre l’Europa è al primo posto, trainata dai quei Paesi scandinavi che invece nei World Happiness Report dell’Onu stazionano sempre nelle prime posizioni. 

    Midsommarfest, Svezia

    Oggi viviamo all’interno di un altro Universo 25, quello della pandemia. L’isolamento è forzato, ma ha messo in luce lo stesso istinto a ergersi al di sopra degli altri, con gli ultimi che combattono i penultimi aizzati da chi sta in cima alla gerarchia sociale. Da virus-contro-uomo si è passati a uomo-contro-uomo, e questo non è avvenuto nel momento massimo di difficoltà del primo lockdown, ma quando sono arrivati i vaccini, la letalità è calata con varianti meno aggressive e si è tornati quindi a una competizione sociale con tinte da guerra civile tra discriminazioni, vittimismo e prevaricazione. Per Calhoun abbiamo nel nostro Dna il gene della prima morte, quella sociale. Ne siamo attratti, la cerchiamo inconsciamente. Spesso la raggiungiamo, quasi sempre senza accorgercene.

  • Siccità, luci e ombre del Piano invasi. Associazioni: “No a nuove dighe”.

    Siccità, luci e ombre del Piano invasi. Associazioni: “No a nuove dighe”.

    Il piano di Anbi e Coldiretti prevede la realizzazione di 10mila invasi medio-piccoli e multifunzionali entro il 2030, in zone collinari e di pianura: “Delicati equilibri ecologici che potrebbero essere compromessi da un ricorso eccessivo a invasi e laghetti”. Il Centro italiano per la riqualificazione fluviale: “L’obiettivo deve essere la ricarica controllata della falda”. Il nodo delle perdite della rete idrica, dei consumi domestici e quello dell’agricoltura.

    “Crisi climatica e siccità non guardano in faccia a nessuno, neanche alla crisi del governo”. Nonostante piogge e previsioni di piogge, il problema resta. Di queste ore, ad esempio, l’allarme sulle acque sotterranee in Emilia Romagna, mai così in sofferenza. E gli incendi non fanno che peggiorare una situazione già sull’orlo del collasso. E così nove associazioni propongono sette interventi chiave, tra cui l’adozione per ogni bacino di protocolli di gestione delle siccità e strategie di riduzione dei consumi idrici e di trasformazione del sistema agroalimentare. Agli inizi di luglio, invece, un Piano invasi e laghetti è stato lanciato da Coldiretti e Anbi (Associazione Nazionale dei Consorzi per la Gestione e la Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue), che aveva chiesto una cabina di regia e un commissario per gestire l’emergenza siccità. Certo, la crisi di governo non ha aiutato. Un piano che divide. Gli invasi? “Nuovi invasi non sono la risposta. Nessuna opposizione ‘ideologica’, ma sono una soluzione che ha molte controindicazioni”. Ne sono convinti Cipra Italia, Club Alpino Italiano, Federazione Nazionale Pro Natura, Free Rivers Italia, Legambiente, Lipu, Mountain Wilderness, Wwf Italia e Cirf (Centro italiano per la riqualificazione fluviale), che aveva già mostrato delle perplessità su soluzioni basate sulla costruzione di nuovi invasi. Una posizione contraria “a nuove dighe lungo i corsi d’acqua naturali”, più possibilista “rispetto a un limitato numero di piccoli invasi collinari volti alla raccolta di deflussi superficiali, per quanto non siano esenti da criticità. È prudente, a riguardo, anche Vito Felice Uricchio, dirigente tecnologo dell’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr: “Credo che la questione vada affrontata con la massima attenzione ai delicati equilibri ecologici che potrebbero essere compromessi da un ricorso eccessivo ad invasi e laghetti” spiega a ilfattoquotidiano.it.

    Il piano invasi e laghetti – Il piano di Anbi e Coldiretti prevede la realizzazione di 10mila invasi medio-piccoli e multifunzionali entro il 2030, in zone collinari e di pianura. Sono 223 i progetti definitivi ed esecutivi, cioè immediatamente cantierabili e l’investimento previsto per questa prima tranche del Piano Laghetti ammonta a oltre 3 miliardi di euro. La realizzazione di questi oltre duecento laghetti comporterebbe un aumento “di quasi 435mila ettari nelle superfici irrigabili in tutta Italia”. Secondo le stime, i nuovi bacini incrementerebbero “di oltre il 60% l’attuale capacità complessiva dei 114 serbatoi esistenti e pari a poco più di un miliardo di metri cubi, contribuendo ad aumentare, in maniera significativa, la percentuale dell’11% di quantità di pioggia attualmente trattenuta al suolo”. Il maggior numero di progetti già pronti interessa l’Emilia Romagna (40), seguita da Toscana e Veneto. Al Sud, il maggior numero di progetti riguarda la Calabria. Ma c’è un altro obiettivo strategico, ossia quello dell’autosufficienza energetica. Per questo scopo, calcolano Anbi e Coldiretti, dovranno essere realizzati 337 impianti fotovoltaici galleggianti (potranno occupare fino al 30% della superficie lacustre) e 76 impianti idroelettrici, capaci di produrre complessivamente oltre 7 milioni di megawattora all’anno. D’altronde, ricorda il presidente Coldiretti, Ettore Prandini, “l’Italia è al terz’ultimo posto in Europa per investimenti nel settore idrico. Un piano di laghetti diffusi e con funzioni anche ambientali è la soluzione all’impossibilità di realizzare grandi invasi”. Un limite si cui, a ilfattoquotidiano.it aveva già parlato anche Maurizio Righettidocente di Costruzioni idroelettriche presso l’Università di Bolzano: “Quando si parla di siccità, bisogna però fare i conti con le peculiarità dei territori e, caso per caso, valutare fabbisogni e ipotesi invasi”.

    La posizione del Centro per la riqualificazione fluviale – Anche i piccoli invasi collinari volti alla raccolta di deflussi superficiali, però, per il Cirf “non devono infatti diventare ulteriore causa diffusa di consumo di suolo e di alterazione delle portate dei corpi idrici, come sta accadendo con gli invasi per l’innevamento artificiale, altro esempio di approccio insostenibile nell’uso dell’acqua nel contesto del cambiamento climatico”. Il Cirf ricorda proprio le stime di Anbi (“In Italia ad essa sono imputabili 14,5 miliardi di metri cubi di acqua l’anno, pari al 54% dei consumi totali”) e ritiene, dunque, prioritario ripensare a quali siano le produzioni agricole meritevoli di essere incentivate e quali invece da disincentivare “in un’ottica di sicurezza alimentare, privilegiando ad esempio le colture meno idroesigenti all’interno del nuovissimo Piano strategico nazionale della PAC (PSP)” bocciato dalla Commissione Europea “proprio per lo scarso coraggio in tema di sostenibilità ambientale”.

    Puntare sulle falde – Per il Cirf “il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda, ogni qual volta ce n’è una. I serbatoi artificiali – aggiunge – sono sostanzialmente interventi monofunzionali, la multifunzionalità tanto sbandierata è solo una chimera, come mostra la realtà degli invasi esistenti, perché i diversi obiettivi a cui possono teoricamente contribuire sono tra loro conflittuali e nella pratica si possono raggiungere solo molto parzialmente”. La ricarica controllata della falda, invece, determina un ventaglio ampio di benefici oltre quello dello stoccaggio: “Falde più alte sono di sostegno a numerosi indispensabili habitat, si previene la subsidenza indotta dall’abbassamento della falda, oltre al fatto che falde più elevate rilasciano lentamente acqua nel reticolo idrografico sostenendo le portate di magra e contrastano l’intrusione del cuneo salino”. E, di fatto, tra le azioni indicate dalle nove associazioni nell’appello al Governo, ce ne sono un paio che hanno come obiettivo proprio quello di ripristinare le falde. Si chiede, infatti, di destinare almeno 2 miliardi di euro l’anno per un periodo di 10 anni “a interventi di riqualificazione morfologica ed ecologica dei corsi d’acqua e del reticolo idraulico minuto e di ricarica della falda previsti dai Piani di gestione e Piani di tutela delle acque”. Ma anche di “recepire le misure previste dalle strategie per la “Biodiversità 2030” e “From farm to fork” nell’ambito del New Green Deal dell’Ue e riprese dalla recente proposta normativa “il Pacchetto Natura” presentata lo scorso 22 giugno dalla Commissione Europea.

    Le altre soluzioni, perdite idriche e politica dei consumi – Tra le altre azioni, l’istituzione di protocolli di raccolta dati e modelli previsionali che permettano di rendere disponibile ai cittadini stime affidabili delle disponibilità di risorse idriche, dei consumi reali e della domanda potenziale e l’adozione per ogni bacino dei protocolli di gestione delle siccità. L’altra richiesta è quella di individuare “gli eventuali ostacoli e i meccanismi di reperimento delle risorse finanziarie che permettano di accelerare il percorso” per portare le perdite delle reti civili al di sotto del 25% (per le perdite percentuali). Nel 2018 le perdite nelle reti idriche potabili sono state pari al 42%, in aumento di 10 punti rispetto al decennio precedente. Il Pnrr prevede di investire entro il 2026 appena 900 milioni di euro, quando l’Ocse nel 2013 stimava che dovremmo spendere 2,2 miliardi euro l’anno per i prossimi 30 anni per far fronte alle necessità del Paese e per metterci in pari con il resto d’Europa. Le associazioni chiedono anche di definire, di concerto con l’Anci, una strategia che promuova la riduzione dei consumi idrici domestici e il ricorso ad acque non potabili (acque di pioggia accumulate o acque grigie depurate) per gli usi compatibili (risciacquo dei WC, lavatrice, lavaggi esterni) in modo da portare il valore medio dei consumi civili di acqua potabile a non oltre i 150 litri abitante giorno.

    Il nodo agricoltura – Discorso a parte merita l’agricoltura. Come spiega Vito Felice Uricchio, dirigente tecnologo dell’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr “anche in agricoltura è necessario ridurre sensibilmente le perdite delle reti irrigue e favorire il riuso di acque reflue depurate. Ma non solo. La necessità di favorire la diffusione di colture e sistemi agroalimentari meno idroesigenti e di contenere i consumi irrigui “entro la soglia dei 2500 metri cubi di ettaro all’anno” suggerisce il Cirf, va di pari passo con il bisogno di adottare misure mirate all’incremento della funzionalità ecologica dei suoli agrari e della loro capacità di trattenere l’acqua. “Non possiamo continuare a deteriorare habitat, ma è necessario rendere l’agricoltura più sostenibile. È possibile – spiega Uricchio – agire sulle pratiche agronomiche, sull’incremento della sostanza organica ed in generale sull’incremento della funzionalità ecologica dei territori agrari e della loro capacità di trattenere e far infiltrare le acque meteoriche e prevenire il degrado dei suoli”. Secondo l’Ispra, infatti, il 28% del territorio italiano presenta segni di desertificazione “che non è banalmente un problema di mancanza d’acqua” spiega il Cirf, ricordando che “secondo dati del 2008, in Italia l’80% dei suoli ha un tenore di carbonio organico inferiore al 2%, di cui una grossa percentuale ha valori di CO minore dell’1%”. Questo indica suoli disfunzionali, proni alla desertificazione, meno capaci di trattenere acqua e nutrienti, dalla minore capacità produttiva.

     

  • Note sul comunismo

    Note sul comunismo

    Risposta a Quanto pensi ci metteranno tutti a capire che quello che c’era in Russia o in Cina non era comunismo? da Ciccio Napolitano https://it.quora.com/Quanto-pensi-ci-metteranno-tutti-a-capire-che-quello-che-cera-in-Russia-o-in-Cina-non-era-comunismo/answer/Ciccio-Napolitano-1?ch=18&oid=367477478&share=9ef2394c&srid=vNXkr&target_type=answer

    Quanto pensi ci metteranno tutti a capire che quello che c’era in Russia o in Cina non era comunismo?

    Il comunismo é il tempo dedicato alla dimensione comune e sociale.

    Pratichi concretamente il comunismo ogni volta che fai sport o ti dedichi alla tua crescita personale e alla crescita degli altri, quando fai volontariato, lavoro in parrocchia, quando ti dedichi ai tuoi cari quando viaggi per svago e fai il turista, quando cioè puoi dedicarti, oltre che al lavoro necessario per produrre il reddito che ti consente di vivere, anche al tempo extra, al tempo condiviso, solidale, comunitario.

    Questa è l’unica definizione rigorosa, fondata, filologica, del comunismo secondo Karl Marx.

    Nel corso di due secoli, specie in Europa, c’è stato molto comunismo realizzato.

    Questa affermazione é evidentemente fondata sol che si consideri che questo stile di vita, quando Marx era in vita era appannaggio solo delle persone molto ricche. Tutti gli altri, cioè i trisavoli della quasi totalità delle persone che stanno leggendo, per mangiare doveva lavorare dall’età di sette -otto anni per sei sette giorni a settimana, per 10–12 ore al giorno, finché non moriva di malattie e di stenti. Marx voleva liberare le persone dal lavoro salariato, da quel lavoro salariato confidando nella capacità del sistema produttivo industriale implementato dalla borghesia grazie al capitalismo (si, proprio dalla classe borghese e dal capitalismo di cui Marx era un estimatore), il comunismo é ottenuto mediante la proprietà comune dei mezzi di produzione. La proprietà comune non è la proprietà di Stato.

    • ‘Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico‘.

    K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24

    7

    Marx ha scritto tutto, ma proprio tutto, in funzione di questi temi.

    I modelli di produzione costituiscono la struttura che conforma la società in un dato momento storico e la Storia stessa. Non sono tanto le guerre a fare la Storia, ma le trasformazioni dei modelli produttivi che generano la Storia.
    I rapporti economici costituiscono la struttura da cui dipendono (sovrastruttura) le relazioni culturali, ideali, religiose, sociali. A ogni passaggio paradigmatico (dalla rivoluzione del neolitico, all’età del bronzo e poi a quella del ferro, alle economie di guerra e schiavistiche, al mercantilismo, fino alla nascita della manifattura della fabbrica moderna), corrispondono forme politiche, valori morali e religiosi, organizzazioni sociali, classi sociali, modelli culturali ed estetici conseguenti.

    Il modello d produzione industriale genera il lavoro salariato e la classe sociale dei salariati della fabbrica, che entrano in competizione/conflitto con la classe, altrettanto nuova dei capitalisti.

    L’obiettivo delle classi padronali é quella di ottenere il massimo tempo di lavoro con la minima retribuzione. Per ottenere questi obiettivi puntano alla contrattazione individuale. Mentre quella dei lavoratori è quella di ottenere retribuzioni più alte, riduzione dell’orario di lavoro, ruolo sociale dei lavoratori come singoli e come classe sociale unità. Per ottenere questi obiettivi puntano alla organizzazione di classe (partiti operai e organizzazioni sindacali) e alla contrattazione collettiva.
    Il capitalismo tende a generare processi di superamento della forma dello Stato Nazione con la creazione del capitalismo finanziario che distrugge la classe degli industriali capitalisti generati dalla manifattura della fase dello Stato Nazione. .

    Grazie per la richiesta!

    Io non so in quale maniera tu idealizzi il comunismo, ma per quello che mi riguarda l’Unione Sovietica e la Cina Popolare erano assolutamente due sistemi comunisti.

    Ti faccio un esempio per chiarire il concetto. Nella ex Unione Sovietica come da dettami di Karl Marx era vietato possedere mezzi di produzione. In agricoltura in particolare nessuno poteva avere la proprietà dei terreni agricoli. Una parte della terra coltivata apparteneva direttamente allo Stato attraverso i Sovchoz, le grandi aziende statali dell’economia pianificata, e chi ci lavorava era un salariato statale. Il restante dei terreni agricoli era proprietà dei Kolchoz, cioè cooperative agricole. Ai contadini di questi ultimi era tuttavia permesso coltivare in proprio il terreno prospiciente la propria abitazione, fino ad un massimo di 4.000 metri quadrati. Per darti dei termini di paragone, l’azienda agricola media in Italia ha oggi una dimensione di circa 84.000 mq, e ai tempi degli zar si pensava che meno di 55.000 mq fossero insufficienti al sostentamento di una famiglia. Si trattava quindi di superfici piuttosto contenute. I contadini potevano utilizzare i prodotti di quei terreni (che avevano in uso, ma appartenevano al Kolchoz) per uso personale, ma anche venderli al mercato.

    Tutto ciò era nato ai tempi di Lenin. Il primo leader del neonato Stato sovietico infatti aveva cercato inizialmente di pianificare completamente l’agricoltura russa. Tuttavia i 5 milioni di morti per fame e le 200 mila persone fucilate per sedare le rivolte sembrarono troppi pure a lui. Per questo col NEP vennero assegnati ai kolchoz circa l’80% dei terreni, e fu creato quel piccolo pertugio all’iniziativa agricola privata. Tramite essi meno del 7% dei terreni agricoli erano gestiti privatamente ma producevano circa la metà della produzione agricola sovietica: tanto bastò a salvare milioni di persone dalla fame.

    Lo Stato sovietico tuttavia predilesse sempre i sovchoz, che negli anni presero sempre più spazio nei confronti dei kolchoz. Quando i primi superarono i secondi, nei primi anni ’60, e i terreni gestiti dai privati scesero sotto al 5%, l’Unione Sovietica perse l’autonomia alimentare e cominciò a importare grano dagli USA pagandolo in oro (il rublo era carta straccia). Oro che si procurava vendendo AK-47 e altre armi agli stati sudditi in giro per il mondo. Così altri morivano al posto dei contadini russi. Negli ultimi decenni meno del 3% dei terreni produceva ancora oltre il 25% del cibo sovietico. Nella sua storia, i pochi terreni a gestione privata produssero a parità di superficie mediamente 9 volte di più di quelli gestiti dalle cooperative e 19 volte di più delle imprese statali pianificate.

    Ora, io non so se tu consideri più comunisti i kolchoz o i sovchoz: entrambi in ogni caso erano mezzi di produzione collettivi. Tuttavia, tutti i dati e i fatti che ti ho qui riportato dimostrano inequivocabilmente due cose.

    Primo, la collettivizzazione delle aziende agricole creò fame e rivolte, e fu per controllare questo che lo Stato sovietico dovette usare la violenza e la tirannia. In altre parole, il fallimento economico del comunismo ne ha provocato la degenerazione antidemocratica, non il contrario. E questo nonostante l’economia sovietica fosse ben più florida di quanto non sia mai stata quella maoista o quella cubana (per dirne due).

    Secondo, anche l’esperienza dell’agricoltura sovietica dimostra che Adam Smith aveva ragione: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse”. E non era il comunismo a sfamare i russi, ma il legittimo interesse di una fortunata minoranza di contadini sovietici.

    EDIT.

    Mi è stato chiesto di aggiungere qualche riferimento ai fatti da me citati. E’ tutto facilmente riscontrabile in qualsiasi buon testo di storia contemporanea. Addirittura molte cose me le ricordavo dal mio libro di scuola del Liceo (che frequentai verso la fine della Guerra Fredda). Metterò qui un po’ di riferimenti a Wikipedia dove trovare le notizie.

    Sui sovchoz

    Sovchoz – Wikipedia

    Sui kolchoz la voce in Inglese è molto più dettagliata di quella in Italiano, dove si trovano anche i dati sulla produttività dei kolchoz, sovchoz e dei terreni gestiti privatamente.

    Kolkhoz – Wikipedia

    Sulla Fame del 1920–22 e il passaggio al NEP (Nuova Politica Economica) consiglio nuovamente le voci in Inglese, assolutamente più approfondite di quelle italiane.

    Vladimir Lenin – Wikipedia

    New Economic Policy – Wikipedia

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  • I 4 valori più importanti da trasmettere ai vostri figli

    I 4 valori più importanti da trasmettere ai vostri figli

    È molto importante che i bambini imparino che non sono superiori a niente e a nessuno, che non va bene vantarsi di fronte agli altri di quello che si ha o di come si è.

    I 4 valori più importanti da trasmettere ai vostri figli

    Educare un figlio è uno dei compiti più importanti dell’essere umano. Se siete padri, madri, nonni o professori è fondamentale che vi chiediate quali valori insegnare ai più piccoli.

    Nel nostro spazio vi suggeriamo di prendere in considerazione questi quattro valori.

    1. L’empatia

    Bambina annusa fiore

    Mettersi nei panni degli altri è fondamentale. Questo è il modo migliore perché possano acquisire una conoscenza di sé stessi e degli altri vivendo nel rispetto, con felicità e armonia. Imparare ciò che potrebbe fare del male agli altri o che cosa non bisogna fare per evitare di farne a chi li circonda è, senza dubbio, un valore eccezionale.

    L’empatia permetterà ai bambini di avere veri amici, di rispettare i loro partner nel futuro e di essere felici con loro. Comprendere che gli altri provano paura, felicità, angoscia, timore o vergogna è un modo di migliorare la convivenza.

    2. L’umiltà

    Bambina nel prato

    È molto importante che i bambini imparino che non sono superiori a niente e a nessuno, che non va bene vantarsi di fronte agli altri di quello che si ha o di come si è.

    L’umiltà aiuta ad essere più felici perché ci si abitua ad apprezzare le cose più semplici ed elementari, quelle che in fondo sono le più importanti nella vita.

    Vivere con un atteggiamento umile permetterà ai vostri figli e figlie di avere una visione più reale delle cose e di chi li circonda.

    Per questo evitate sempre di riempirli di regali, non soddisfate tutti i loro desideri, mostrate loro che nella vita tutto richiede uno sforzo e che le cose più piccole, che non hanno prezzo, sono le più importanti.

    Essere umili è un valore indispensabile che non sempre viene trasmesso quando si educano i più piccoli. Perché non provarci?

    3. L’impegno: uno dei valori più importanti

    Creatività bambini

    L’impegno è un valore che i bambini devono sviluppare con il tempo, ma che bisogna inculcare già da piccoli.

    Con questo impareranno a essere sempre più maturi e responsabili. Impegnarsi nelle cose li aiuta a essere migliori man mano che crescono e che maturano.

    Impegnarsi nello studio, in famiglia e con gli amici crea legami e possibilità. Insegnate loro che ci sono cose importanti per cui lottare e sforzarsi, per cui essere responsabili e migliorare. Ad esempio, bisogna far vedere ai figli che le parole hanno un valore e che l’impegno è fondamentale come l’entusiasmo.

    4. Il valore dell’autostima

    Mamma e bambina ballano

    L’autostima è uno dei valori imprescindibili, che bisogna rafforzare nei bambini già dai primi anni. Appoggiateli, elogiateli, congratulatevi per quello che fanno bene e date loro consigli su come correggere ciò che sbagliano.

    Infondete loro coraggio mostrando quanto sono bravi e quanto li amate, spronateli ad avere fiducia in sé stessi, comprendendo che sbagliare non è un male e che con sforzo possono ottenere qualsiasi cosa.

    Una persona che gode di buona autostima è una persona forte, a cui nessuno può far del male, una persona che mantiene l’entusiasmo e che alimenta l’idea di essere felice giorno dopo giorno, perché se lo merita e perché glielo avete insegnato.

    Ricordate che per far sì che questi valori vengano trasmessi dovete essere i primi a dare l’esempio. Siate coerenti, saldi e mantenete sempre l’entusiasmo e l’affetto verso di loro.

  • Dopo 2 anni di Covid-19, chi aveva ragione, i novax o chi si è vaccinato?

    Dopo 2 anni di Covid-19, chi aveva ragione, i novax o chi si è vaccinato?

    Mi piacerebbe che le persone si trovassero d’accordo almeno su una cosa: l’importanza delle fonti.

    Per due anni ho inondato Quora di studi pubblicati su Nature, Science, Lancet, NEJM e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una infinitesima porzione degli articoli scientifici pubblicati in merito alla pandemia e che io stesso, insieme ai colleghi, ho riassunto in un metastudio che ne analizzava oltre 17000

    [1]. Si tratta di studi su riviste scientifiche internazionali, che analizzano dati provenienti da tutto il mondo. Ogni studio ha superato la revisione paritaria ed è stato posto al vaglio della comunità scientifica tramite pubblicazione su riviste specializzate frequentate da addetti ai lavori.

    Poi vai su Internet e leggi “Galli ha detto che si è pentito di fare il vaccino”, e gente che si azzuffa su una dichiarazione rilasciata durante un’intervista, capita male, e rimbalzata da blog, webmagazine e quotidiani di dubbia serietà, il tutto rigorosamente prodotto, masticato e digerito da e per italiani che tentano di capire un fenomeno mondiale osservandolo dal buco della serratura di sitarelli di provincia. Ora, il punto non è che la notizia sia l’ennesima bufala

    [2], il punto è il livello del dibattito. È come se a un simposio sulla meccanica quantistica arrivasse Pierino a scorreggiare al microfono dicendo che “col fischio o senza è tutta una scemenza” e i giornali pubblicassero a strascico le sue tesi ignorando del tutto gli studi di Heisenberg e Schrödinger, che sono troppo complicati per interessare alla gente. La scorreggia, d’altro canto, ha un appeal universale ed intramontabile, a quanto pare.

    Ma benedetti signori, lo capite che voi, con le vostre tasse, pagate della gente che studi certi problemi per voi e vi dica come stanno le cose? Se prima li pagate e poi non li ascoltate, vi rendete conto che state buttando via i vostri soldi? Sarebbe come andare dal barbiere, pagarlo, e poi tornarsene a casa propria a tagliarsi i capelli da soli davanti allo specchio. Fidatevi, non otterrete un gran risultato.

    Dall’inizio della pandemia tutte le fonti scientifiche hanno spiegato che l’obiettivo principale doveva essere “flatten the curve”, appiattire la curva. Non mi dite che avete dimenticato questa immagine

    [3] perché se la ricordano pure i pesci rossi:

    Ora, uno guarda agli effetti dei vaccini, e cosa “scopre” (come se non si sapesse già dai risultati dei test clinici del 2020)? Ecco uno dei tanti grafici in merito, ne riporto quasi ogni volta uno diverso da fonte diversa proprio per sottolineare che dicono tutti esattamente la stessa cosa

    [4]:

    Ma tu guarda. I vaccini fanno esattamente ciò di cui avevamo disperatamente bisogno e che avevamo stabilito essere il nostro obiettivo fondamentale per riuscire a limitare i danni di questo disastro. Lo abbiamo chiesto alla scienza, la scienza ci ha dato la risposta, con una tempistica ed un livello di efficacia addirittura superiori alle più rosee aspettative.

    Questi sono i fatti, il resto è rumore di fondo unito al tentativo di alcuni avvoltoi di carpire il vostro consenso in una battaglia montata ad arte. E Galli ha detto, e Speranza ha fatto, e Draghi venduto, e Fauci comprato. Chiasso informe da dare in pasto a folle fameliche. Se non hanno il pane, mangino bufale.

    Molti no-vax sono semplicemente persone che mancano degli strumenti necessari a valutare dati e fonti pubblicamente disponibili e che incontrano individui spregiudicati il cui obiettivo è infilarsi nelle loro paure per sfruttarle a proprio vantaggio. Un po’ come quei parassiti che disconnettono il cervello delle formiche per portarle dove vogliono loro

    [5].

    La quantità di vite salvate dai vaccini è incalcolabile. Una stima dell’ECDC

    [6] parla di mezzo milione di persone in meno di un anno contando solo gli effetti diretti del vaccino. Ma quelli indiretti sono davvero inestimabili. Dai lockdown risparmiati alle corsie degli ospedali svuotate (e quindi morti indirette scongiurate) è impossibile fare un calcolo attendibile di tutti i guai evitati dai vaccini.

    Ma abbiamo, come dicevo, un problema da risolvere che é più importante di quello di far capire alla gente che i vaccini sono stati una manna dal cielo. E il problema è che nonostante gli studi, le fonti scientifiche internazionali tutte concordi, i dati e i risultati sotto gli occhi di tutti, tanta gente continuerà ad andare su Internet ad appaltare l’uso dei propri neuroni a siti di “controinformazione” che vengono messi sullo stesso piano del MIT, di Oxford, degli organi internazionali di sorveglianza sanitaria, degli scienziati pagati con le tasse dai cittadini per spiegare ai cittadini come stanno le cose.

    L’istruzione è il primo passo. La gente deve imparare i fondamenti della statistica e della comunicazione a scuola, come leggere e far di conto. Prima lo capiamo, prima ci buttiamo alle spalle questo Medioevo della comunicazione di massa distribuita.

  • Covid luglio 22

    Covid luglio 22

    Uno che non sa niente di immunità, di farmaci, di vaccini, di virus, di ricerca scientifica in generale, legge questa roba e cosa mai può concludere? Io concluderei che uno che si è vaccinato faccia in realtà un danno al proprio sistema immunitario e diventi più fragile di chi non si è vaccinato. Questo vuol dire quel titolo, lo so. Tutta la mia incondizionata e sincera solidarietà.

    Però dovete anche prendervi le vostre responsabilità, che comunque ci sono. Primo: vi siete chiesti qual è la fonte di questa notizia? Secondo: oltre al titolo, avete letto cosa c’è scritto nell’articolo? Terzo: cosa ha effettivamente detto Pfizer nel suo testo originale? Ci vogliono cinque minuti per trovare le risposte a queste tre elementari domande.

    Primo: la fonte è ”La Verità”, il che dovrebbe già far sollevare un sopracciglio, se non ogni singolo pelo del corpo.

    Secondo: nel corpo dell’articolo è scritto: “Le valutazioni cliniche di laboratorio hanno mostrato una diminuzione transitoria dei linfociti che è stata osservata in tutti i gruppi di età e di dose dopo la [prima, nota mia] dose che si è risolta entro circa 1 settimana“. C’è scritto così, ho riportato il testo tale e quale. Sì: il titolo era un evidente click-bait.

    Terzo: il testo originale di Pfizer è riportato nell’articolo, anche se sotto forma di un trafiletto estrapolato e appena leggibile. Con molto sforzo si vede che la traduzione è corretta. Non è riportata però la conclusione: “[diminuzione transitoria dei linfociti…] non associata a nessun’altra conseguenza clinica e non considerata clinicamente rilevante. In parole povere, per una settimana hai qualche linfocita in meno, ma il tuo sistema immunitario se ne accorge a stento.

    Sì, lo so, hanno montato l’ennesima bufala e tanti ci sono cascati di nuovo. Mi dispiace, davvero. Però la prossima volta un po’ di attenzione in più.

    Passiamo alle cose serie.

    Secondo EMA, tra l’altro nella persona dell’italiano Marco Cavalieri, è necessaria particolare cautela nell’eventualità di una quarta dose (quarta dose) perché, se troppo ravvicinata alla terza, potrebbe avere un effetto negativo su un sistema immunitario che sta ancora digerendo le informazioni ricevute precedentemente. Questa è una cosa nota che riguarda tutti i vaccini, non solo quelli anticovid. Le attuali raccomandazioni congiunte di EMA e CDC suggeriscono di aspettare prima di proporre la quarta dose nella popolazione generale ed eventualmente riservarla alle persone molto anziane o comunque particolarmente a rischio. E infatti nessuno ci ha detto di metterci in fila, notato?

    In tutto questo, stiamo pure tranquilli. Se ci saranno questioni rilevanti da conoscere, comprese scoperte di nuovi effetti avversi o di improvvisa inutilità o dannosità dei vaccini, lo verremo a sapere. Non da La Verità, dall’EMA.