Il giornale La Repubblica titola “Il vaccino, è vero, protegge poco o nulla dall’infezione, ma è sempre un’arma molto efficace ”contro la ‘malattia grave””, con che base scientifica quindi buona parte della popolazione italiana è stata emarginata?
Vedi, il problema non è la base scientifica. Il problema è la psicologia.
Io potrei fornirti una sfilza di studi scientifici che mostrano i dati sull’efficacia dei vaccini anti-covid contro il contagio dalla variante originale e dalla delta. Potrei anche mostrare tutti i dati sull’occupazione delle terapie intensive in mezzo mondo, la cui saturazione rendeva fondamentale l’abbassamento della quantità di malati gravi, per cui era importante che ci si vaccinasse anche solo per evitare di occupare altri posti letto.
Ma sarebbe inutile.
Se io mostrassi un articolo preso da una rivista scientifica che dimostra che i vaccini hanno avuto una buona efficacia contro i contagi nel 2021 e parte del 2022, e un’ottima efficacia contro la malattia grave sempre, la risposta che susciterei nel novax di turno sarebbe una delle seguenti:
Mi direbbe che quella non è “vera scienza”, magari corroborando tale tesi con un link ad un post su Facebook o ad un video su YouTube che dimostrino ciò che debba intendersi per “vera scienza”.
Elencherebbe dati di segno opposto, ma senza fonti. Una eventuale richiesta in tal senso non verrebbe mai soddisfatta, o al massimo otterrebbe un altro post su Facebook o un altro video su YouTube.
Mi citerebbe le parole di Tizio, che è uno scienziato famoso e che sta spesso in televisione. Come mi permetto io, che non sono nessuno, di dire il contrario di quello che dice l’esimio Tizio? Ovviamente il tentativo di seguire lo stesso ragionamento, ignorandone quindi la palese fallacia, ed elencare una sfilza di scienziati famosi che la pensano al contrario di Tizio sortirebbe l’unico effetto di ascriverli tutti seduta stante alla comunità degli stipendiati da Bigfarma.
Mi rimanderebbe ad articoli scientifici pubblicati su riviste di quart’ordine che risultano noti esclusivamente in ambienti novax e dei quali nessuno nella comunità scientifica ha mai sentito parlare a causa della loro totale irrilevanza. Gli unici scienziati a conoscenza di uno studio del genere sono di solito quelli che l’hanno scritto e quelli che tipicamente hanno pubblicato un successivo articolo di aspra critica o smentita nei confronti del primo. Tale articolo, però, oltre ad essere del tutto sconosciuto tra gli scienziati, lo è pure tra i novax.
Mi farebbe un elenco di politici italiani che hanno detto questo e quello e perciò sono degli infami traditori della patria, e quindi io mi devo vergognare. Qui il mio problema è che difficilmente capisco a cosa ci si riferisca, perché di solito sono concetti travasati direttamente da titoli di quotidiani italiani rispetto ai quali pratico il più assoluto disinteresse. Vengo quindi sommerso da un torrente di dissonanza cognitiva nel tentativo di far comunicare le informazioni scientifiche rispetto all’efficacia di un vaccino somministrato su tutto il pianeta per combattere una pandemia, con quello che avrebbe detto Speranza da Floris un anno fa a proposito del green pass italiano. Davanti ai miei occhi chiusi si incrociano istogrammi di Science con selfie di Salvini, le formule dei modelli epidemiologici di Nature con i titoli a otto colonne dedicati a una vigilessa no-vax da “La Verità”. E mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni e la presente e viva. Ma più le morte.
Mi accuserebbe di aver subìto il lavaggio del cervello da parte dei media. Giusto a titolo di esempio citerei quella volta in cui fui accusato di essermi fatto rincretinire a furia di televisione anziché informarmi dalle fonti scientifiche. Detto a un ricercatore che all’epoca viveva dentro un campus universitario, stava lavorando ad una meta-analisi della letteratura scientifica sul covid, e la cui televisione prendeva solo canali arabi.
Mi coprirebbe direttamente di insulti.
Tutto questo verrebbe avanzato mediante commenti tendenzialmente sgrammaticati e PARZIALMENTE IN MAIUSCOLO, perché con le lettere grosse il sistema si combatte meglio.
Quello che difficilmente otterrei sarebbe una critica nel merito. Non vorrei pensarlo, ma ahimè temo che il motivo principale sia la mera incapacità dell’accanito interlocutore di leggere e comprendere uno studio scientifico, oltretutto in inglese. Che sarebbe anche una cosa normale, visto che parliamo di letteratura specialistica. Il problema è che questo diventa sufficiente perché il fiero sovvertitore di greggi assuma che in quell’articolo debbano esserci scritte solo fregnacce, mentre quel tizio che fa le stories su Instagram sì che parla chiaro.
Ecco, queste sono le principali motivazioni per cui non ripeterò per l’ennesima volta quali siano le basi scientifiche di cui si parla nella domanda. Non ritenendo che la domanda stessa sia posta con l’intento sincero di imparare qualcosa, ma piuttosto con quello di provocare un ennesimo battibecco ideologico, temo che mi ritroverei immerso fino al collo in uno dei casi elencati sopra.
E a ‘na certa il navigar non m’è mica tanto dolce, in questo mare.
Medico in Formazione Specialistica in Igiene e Medicina Preventiva, Università degli Studi di Genova
pubblicata il 25/05/2022
Nel febbraio 1957, un nuovo virus dell’influenza A (H2N2) emerse in Asia orientale, innescando la pandemia di “influenza asiatica” [1].
Il virus H2N2 era composto da un riassortimento di un virus influenzale umano e del virus dell’influenza aviaria A, avvenuto presumibilmente nel Guizhou, nel sud della Cina [1] [2][3] [4] [5].
Segnalato per la prima volta a Singapore nel febbraio 1957, si diffuse a Hong Kong nell’aprile e nelle città costiere degli Stati Uniti nell’estate dello stesso anno [1] [2].
A diversi mesi dalla comparsa del nuovo patogeno, furono segnalati numerosi casi di infezione, specialmente nei bambini, negli anziani e nelle donne incinte [6]: l’impennata dei contagi risultò in un’ondata pandemica che colpì l’emisfero settentrionale nel novembre 1957 [6].
Riguardo le manifestazioni cliniche di malattia, alcuni individui infetti manifestavano solo sintomi minori, come tosse e febbre lieve, mentre altri presentavano complicazioni potenzialmente letali come la polmonite [6] [7].
La pandemia di influenza Asiatica fu tra le più letali della storia [8]: nonostante la scarsità dei dati disponibili si stima, infatti, che il numero di morti sia stato tra 1 e 4 milioni in tutto il mondo e solo in Italia si contarono 70.000 vittime [9].
L’Asiatica fu la seconda grande pandemia influenzale verificatasi nel XX secolo, dopo la pandemia influenzale del 1918-19 e prima della pandemia influenzale del 1968 [6].
Nel 1960 il ceppo umano pandemico H2N2 subì una serie di modifiche genetiche minori, secondo il processo noto come deriva antigenica, producendo epidemie periodiche [6].
Dopo 10 anni di evoluzione, il virus dell’influenza del 1957 scomparve, sostituito attraverso lo spostamento antigenico da un nuovo sottotipo di influenza A, H3N2, che diede origine alla pandemia influenzale del 1968 [6] [10].
Il rapido sviluppo di un vaccino contro il virus H2N2 e la disponibilità di antibiotici per il trattamento delle infezioni secondarie limitarono la diffusione e la mortalità della pandemia del 1957 [6].
Full Professor of History of Medicine and Human Sciences University of Sassari, Italy. SISUMed- Società Italiana di Scienze Umane in Medicina – Roma – La Sapienza.
pubblicata il 02/03/2021
aggiornata il 14/01/2022
L’attenzione verso la prima pandemia del XX secolo si è risvegliata in questi ultimi mesi, spinta dall’esigenza di approfondire le condizioni che fecero da sfondo ad uno degli eventi più letali del mondo moderno, la pandemia influenzale del 1918-19, passata alla storia col nome di “Spagnola”.
Sebbene la penisola iberica non avesse niente a che fare con l’origine della tremenda malattia, non essendo tra i paesi belligeranti, i giornali, non sottoposti alla pesante censura di guerra, pubblicarono le notizie sulla misteriosa malattia, sbarcata in Europa nella primavera del 1918 1. Fu così che, con grande disappunto degli spagnoli, il loro Paese fu per sempre associato alla pandemia, che, in tre diverse ondate, in meno di due anni, attraversò il mondo come un uragano, rappresentando uno dei maggiori disastri sanitari degli ultimi secoli, superata solo per morbilità e mortalità dalla Morte Nera (la peste del Trecento, ndr).
Stando alle stime più attendibili, in soli sei mesi, tra la fine di ottobre e l’aprile del 1919, colpì 500 milioni di persone (poco meno di un terzo della popolazione mondiale del tempo), uccidendone circa 50, secondo le stime più caute. In Italia, che fu il paese più colpito in Europa, insieme al Portogallo, le vittime furono 600 mila e negli Stati Uniti 675.0002.La prima ondata si manifestò in un campo militare americano nella primavera del 1918. Portata in Europa dalle truppe in arrivo dagli Stati Uniti, si diffuse velocemente in Francia, Inghilterra, Italia. Durante la primavera ebbe un carattere mite, non diverso dalla normale influenza stagionale che i medici conoscevano da sempre e attribuivano al maligno influsso degli astri e alla loro sfavorevole congiunzione. La prima definizione, infatti, si deve allo storico fiorentino ‘Matteo Villani’ che, nel 1358, spiegava con le “costellazioni e aria fredda un’Influenza che aveva colpito poco meno che tutti i corpi umani della città e distretto di Firenze e delle circostanti vicinanze”3.
L’ondata primaverile, mite, non diversa dalle solite influenze stagionali, non mise dunque in allarme i medici. Vincolati da un Decreto dell’ottobre del 1917, che puniva severamente chi provocava allarme, deprimendo lo spirito pubblico, nelle settimane cruciali dell’epidemia, i giornali tacevano sulla preoccupante escalation di quella strana influenza. Del resto, in estate parve scomparire. Nella tarda estate, a partire da agosto- settembre ricomparve però con la forza di un uragano devastante.
La malattia si manifestava bruscamente “con lieve catarro del naso” ed era caratterizzata “da senso di molestia alla gola, da stanchezza, da dolori vaghi a tutto il corpo”. Seguivano rapidamente la febbre, alta, in molti casi, testimoniavano i medici “preceduta da brivido o accompagnata da forte mal di capo, l’arrossamento degli occhi che male sopportano la luce, la tosse stizzosa, molte volte perdita di sangue dal naso”. Forse per non allarmare la popolazione, non si parlava delle possibili e frequentissime complicazioni, responsabile dell’alta mortalità: tracheobronchiti, bronchiti acute, catarri soffocanti, polmoniti lobari, ecc. Ad essere colpiti furono soprattutto i giovani adulti (20-40 anni), piuttosto che gli individui avanti con l’età4.
La scienza medica brancolava nel buio. Le luminose certezze accumulate nell’ultimo ventennio dell’Ottocento con la “rivoluzione batteriologica” si dissolvevano come nebbia al sole, mentre infuriava una delle più micidiali epidemie di tutti i tempi: la malefica “semenza del morbo” restava avvolta nel mistero : appariva sempre più chiaro che l’Haemophilus influenzae isolato nel contesto della precedente pandemia del 1889-90 da un allievo di Koch, Richard Pfeiffer non era l’agente causale dell’Influenza, mentre cominciava ad avanzare l’ipotesi di un agente infettivo di dimensioni infinitesimali – ‘un virus ultra-filtrabile’5. Ad uccidere – spiegavano tutti – non era l’influenza in sé, bensì le complicazioni pleuropolmonari. Non esisteva profilassi: il consiglio divulgato dalle autorità sanitarie6 e dai numerosi ‘avvisi’ pubblicati dai giornali, era di “evitare il contagio e di praticare grande pulizia delle mani, delle cavità nasali, della bocca”.
La tremenda Spagnola trovava le popolazioni in condizioni di debolezza e prostrazione, dovute ai lunghi anni di guerra7. Ma trovava anche strutture sanitarie al collasso. Buona parte dei medici, degli infermieri e dei farmacisti si trovava al fronte, mancavano le medicine e persino i generi di prima necessità per i malati e i convalescenti. Le sparse informazioni parlano di cure a base di tintura d’oppio canforata, di acido fenico, di iniezioni di percloruro di mercurio. Negli ospedali si ricorreva, secondo i casi, a iniezioni ad alte dosi di canfora, al siero anti-pneumococcico, alla somministrazione di fenolo e mentolo. Tra la fine di settembre e i primi di ottobre , si susseguirono le misure profilattiche adottate dai sindaci e dagli ufficiali sanitari , sulla base delle circolari del ministro dell’Interno: individuazione dei focolai epidemici; isolamento, se possibile, dei malati, anche negli ospedali, dove erano proibite le visite; chiusura delle scuole, eliminazione dei contatti con i malati e con possibili infetti; riduzione al minimo di riunioni pubbliche in locali chiusi come teatri e cinematografi; disinfezione accurata e pulizia di case, uffici pubblici e chiese8.
I vescovi impartirono ordini severissimi ai parroci perché non trascurassero la disinfezione di banchi e confessionali. Era proibito suonare le campane a morto: il lugubre rintocco che scandiva la giornata nelle grandi città come Milano e Roma- dove i morti, a metà ottobre, si contavano a centinaia – era ritenuto deleterio per ‘lo spirito pubblico’. L’orario di chiusura di bettole, osterie e rivendite di generi alimentari era fissato per le ore 21, mentre era prorogato l’orario di chiusura delle farmacie. Tutte le feste patronali erano sospese. Le strade erano invase dall’odore di acido fenico. Medici e infermieri dovevano usare una mascherina di garza. Manifesti e giornali traboccavano di consigli per evitare l’influenza: evitare i luoghi affollati e gli ‘agglomeramenti’, osservare la più scrupolosa igiene individuale, lavarsi le mani, non sputare, un’abitudine allora diffusissima in tutti gli strati sociali. Molti presero a fumare nella convinzione che il fumo uccidesse “i germi dell’influenza”. Altri intensificarono le bevute, con l’idea che l’alcol allontanasse la malefica malattia. Adottata nelle grandi città degli Stati Uniti, la quarantena e le altre restrizioni non furono adottate in Italia, dove lo stato di guerra esigeva la libera circolazione di uomini e mezzi.
Mentre cresceva l’attesa della fine del sanguinoso conflitto, una serie di proibizioni – provenienti da sindaci, medici provinciali, prefetti – modificò nel profondo la vita quotidiana della gente: proibito recarsi a visitare gli ammalati, andare in chiesa, portare le condoglianze alle famiglie dei defunti, un uso radicato nelle tradizioni popolari, seguire i funerali.
Al calare della notte i circoli, i caffè, le bettole chiudevano i battenti facendo precipitare nel buio le strade della città. Da un giorno all’altro, anche aree lontane dalla zona di guerra, le popolazioni civili furono sottoposte ad una rigida disciplina, quasi militare. Nelle farmacie la gente faceva la fila per acquistare chinino e aspirina. L’impegno profuso dai giornali nel minimizzare e l’assoluto silenzio sulle reazioni popolari, non riesce a nascondere del tutto l’ansia, lo sgomento e la paura, l’impatto di misure che modificavano il vissuto della gente.
Nella prima decade di novembre del 1918, mentre nei laboratori, i ricercatori sperimentavano il fallimento dei tentativi di preparare un siero immunizzante efficace con cui eseguire esperimenti sugli animali ed applicazioni terapeutiche, la pandemia sembra allentare la presa, dopo aver attraversato l’Italia come un uragano, facendo fare un balzo del 21 per mille alla mortalità ordinaria nelle regioni più colpite (Lazio, Sardegna, Basilicata, Calabria). Ma nell’inverno 1918-19, favorita forse anche dagli ‘agglomeramenti’ provocati in novembre dalle grandi manifestazioni di piazza di folle festanti per la fine della guerra e la firma dell’armistizio- si verifica una ‘terza ondata’ più mite, legata anche al fatto che come per altri ceppi influenzali, l’influenza doveva essere diventata più attiva nei mesi invernali. Infine, verso la metà del 1920, a circa due anni dal suo esordio, quel ceppo mortale di influenza sembra scomparire, anche se non abbiamo dichiarazioni solenni o memorabili sull’uscita di scena di ‘quel morbo così funesto per l’umana gente’ – per riprendere le parole del direttore del Laboratorio batteriologico della Sanità pubblica, Bartolomeo Gosio.
Che, in una pubblicazione sugli Annali d’Igiene (1922)9 ammette che ‘per fortuna dell’umanità’ era venuto ‘in gran parte a mancare il materiale clinico d’indagine’, anche se era ‘da temersi purtroppo che la semenza del morbo non fosse spenta’. Cosa che suscitava l’inquietudine di igienisti e patologi, impegnati a discutere, nel 1921-22, se ‘i parossismi’ più o meno accentuati di quel biennio fossero ‘epidemie di ritorno’. Si può però dire che la fine della Spagnola si verificò, a due anni di distanza dal suo esordio: il virus aveva circolato in tutto il mondo, infettando così tante persone da ridurre il numero di nuovi ospiti suscettibili perché il ceppo influenzale diventasse di nuovo una pandemia. Si calcola che un terzo della popolazione mondiale avesse contratto il virus che verrà isolato solo nel 1933. Stando alle ultime ricerche10, quella catastrofe fu provocata da un virus A/HIN1 di probabile origine aviaria, completamente nuovo per la popolazione umana, che quindi non aveva difese nei suoi confronti. Nel 2005, un gruppo di ricerca ha annunciato su Science e Nature di aver determinato con successo la mappatura del genoma, grazie al recupero dal corpo di una vittima sepolta nel permafrost dell’Alaska e da campioni di soldati americani morti di Spagnola.
L’esperienza del passato è quanto mai importante nell’affrontare un tema come quello delle pandemie influenzali, eventi che si ripetono nel tempo, senza dimenticare che i fenomeni epidemici ricorrono spesso con le stesse modalità, anche se non in maniera del tutto simile. Il susseguirsi delle diverse ondate epidemiche della Spagnola, dalla più mite alla più grave, propone un possibile andamento naturale delle epidemie. Le lezioni del passato sono preziose e le conoscenze acquisite dalla ricostruzione storica degli eventi pandemici rappresentano un punto di riferimento, restando però pronti – come c’insegna l’attuale pandemia causata da un altro virus che il mondo sta affrontando – a far fronte a dinamiche nuove, bizzarre e inattese, perché anche i virus modificano i loro comportamenti in un mondo globale e in continua evoluzione.
Fonti / Bibliografia
A.W. Crosby, Influenza, in K.F. Kiple, ed., <i>The Cambridge World History of Human Disease</i>, Cambridge University Press, New York, 1993, pp. 807-811.
Alcune fonti parlano di 25, altre di 50 milioni, altre ancora si spingono ad ipotizzare 100 milioni. Cfr. W. Beveridge, L’influenza. L’ultimo grande flagello,Roma 1982.Johnson NPAS, Mueller J. Updating the accounts: global mortality of the 1918–1920 “Spanish” influenza pandemic. Bulletin of History of Medicine 2002, n.76, pp. 105–15.
E.Tognotti, La ‘Spagnola in Italia’, Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo, Milano, 2015, 2 ed.
E. Tognotti, Influenza pandemics: a historical retrospect, J Infect Dev Ctries, 2009 Jun 1;3(5):331-4.
G. Kolata, Epidemia. Storia della grande influenza del 1918 e della ricerca di un virus mortale,Milano 2000, p. 9.
Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Sanità, Istruzioni popolari per la difesa contro l’influenza,Roma 1918,p. 5.
I più autorevoli clinici del tempo erano convinti che, «avendo la guerra contribuito a fiaccare la resistenza organica delle popolazioni (era) responsabile dei caratteri di gravità che l’epidemia aveva assunto». Questa stessa opinione era stata espressa in Svizzera dove, secondo alcuni, la malattia si era virulentata nei campi degli internati, soggetti a privazioni e sofferenze». Cfr. L. Verney, Sulla profilassi dell’influenza,in «Il Policlinico», 5 gennaio 1919 (XXVI), fasc. 1, p. 8.
Cfr. per l’organizzazione sanitaria «al fine di un efficace sistema di protezione della salute pubblica», Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Sanità Pubblica, Atti Amministrativi (1910-20), bb. 178 bis, 179.
B. Gosio, A. Missiroli, Ricerche sul potere tossigeno del bacillo di Pfeiffer in rapporto alla patogenesi dell’influenza,in «Annali d’Igiene»,, fasc. 1, 1922.
A.H. Reid, T.G. Fanning, J.V. Hultin, and J.K. Taubenberger, Origin and evolution of the 1918 “Spanish” influenza virus hemagglutinin gene, Proceedings of the National Academy of Science, 1991, 96: 1651-1656.
Mi piacerebbe che le persone si trovassero d’accordo almeno su una cosa: l’importanza delle fonti.
Per due anni ho inondato Quora di studi pubblicati su Nature, Science, Lancet, NEJM e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una infinitesima porzione degli articoli scientifici pubblicati in merito alla pandemia e che io stesso, insieme ai colleghi, ho riassunto in un metastudio che ne analizzava oltre 17000
[1]. Si tratta di studi su riviste scientifiche internazionali, che analizzano dati provenienti da tutto il mondo. Ogni studio ha superato la revisione paritaria ed è stato posto al vaglio della comunità scientifica tramite pubblicazione su riviste specializzate frequentate da addetti ai lavori.
Poi vai su Internet e leggi “Galli ha detto che si è pentito di fare il vaccino”, e gente che si azzuffa su una dichiarazione rilasciata durante un’intervista, capita male, e rimbalzata da blog, webmagazine e quotidiani di dubbia serietà, il tutto rigorosamente prodotto, masticato e digerito da e per italiani che tentano di capire un fenomeno mondiale osservandolo dal buco della serratura di sitarelli di provincia. Ora, il punto non è che la notizia sia l’ennesima bufala
[2], il punto è il livello del dibattito. È come se a un simposio sulla meccanica quantistica arrivasse Pierino a scorreggiare al microfono dicendo che “col fischio o senza è tutta una scemenza” e i giornali pubblicassero a strascico le sue tesi ignorando del tutto gli studi di Heisenberg e Schrödinger, che sono troppo complicati per interessare alla gente. La scorreggia, d’altro canto, ha un appeal universale ed intramontabile, a quanto pare.
Ma benedetti signori, lo capite che voi, con le vostre tasse, pagate della gente che studi certi problemi per voi e vi dica come stanno le cose? Se prima li pagate e poi non li ascoltate, vi rendete conto che state buttando via i vostri soldi? Sarebbe come andare dal barbiere, pagarlo, e poi tornarsene a casa propria a tagliarsi i capelli da soli davanti allo specchio. Fidatevi, non otterrete un gran risultato.
Dall’inizio della pandemia tutte le fonti scientifiche hanno spiegato che l’obiettivo principale doveva essere “flatten the curve”, appiattire la curva. Non mi dite che avete dimenticato questa immagine
Ora, uno guarda agli effetti dei vaccini, e cosa “scopre” (come se non si sapesse già dai risultati dei test clinici del 2020)? Ecco uno dei tanti grafici in merito, ne riporto quasi ogni volta uno diverso da fonte diversa proprio per sottolineare che dicono tutti esattamente la stessa cosa
Ma tu guarda. I vaccini fanno esattamente ciò di cui avevamo disperatamente bisogno e che avevamo stabilito essere il nostro obiettivo fondamentale per riuscire a limitare i danni di questo disastro. Lo abbiamo chiesto alla scienza, la scienza ci ha dato la risposta, con una tempistica ed un livello di efficacia addirittura superiori alle più rosee aspettative.
Questi sono i fatti, il resto è rumore di fondo unito al tentativo di alcuni avvoltoi di carpire il vostro consenso in una battaglia montata ad arte. E Galli ha detto, e Speranza ha fatto, e Draghi venduto, e Fauci comprato. Chiasso informe da dare in pasto a folle fameliche. Se non hanno il pane, mangino bufale.
Molti no-vax sono semplicemente persone che mancano degli strumenti necessari a valutare dati e fonti pubblicamente disponibili e che incontrano individui spregiudicati il cui obiettivo è infilarsi nelle loro paure per sfruttarle a proprio vantaggio. Un po’ come quei parassiti che disconnettono il cervello delle formiche per portarle dove vogliono loro
La quantità di vite salvate dai vaccini è incalcolabile. Una stima dell’ECDC
[6] parla di mezzo milione di persone in meno di un anno contando solo gli effetti diretti del vaccino. Ma quelli indiretti sono davvero inestimabili. Dai lockdown risparmiati alle corsie degli ospedali svuotate (e quindi morti indirette scongiurate) è impossibile fare un calcolo attendibile di tutti i guai evitati dai vaccini.
Ma abbiamo, come dicevo, un problema da risolvere che é più importante di quello di far capire alla gente che i vaccini sono stati una manna dal cielo. E il problema è che nonostante gli studi, le fonti scientifiche internazionali tutte concordi, i dati e i risultati sotto gli occhi di tutti, tanta gente continuerà ad andare su Internet ad appaltare l’uso dei propri neuroni a siti di “controinformazione” che vengono messi sullo stesso piano del MIT, di Oxford, degli organi internazionali di sorveglianza sanitaria, degli scienziati pagati con le tasse dai cittadini per spiegare ai cittadini come stanno le cose.
L’istruzione è il primo passo. La gente deve imparare i fondamenti della statistica e della comunicazione a scuola, come leggere e far di conto. Prima lo capiamo, prima ci buttiamo alle spalle questo Medioevo della comunicazione di massa distribuita.
Uno che non sa niente di immunità, di farmaci, di vaccini, di virus, di ricerca scientifica in generale, legge questa roba e cosa mai può concludere? Io concluderei che uno che si è vaccinato faccia in realtà un danno al proprio sistema immunitario e diventi più fragile di chi non si è vaccinato. Questo vuol dire quel titolo, lo so. Tutta la mia incondizionata e sincera solidarietà.
Però dovete anche prendervi le vostre responsabilità, che comunque ci sono. Primo: vi siete chiesti qual è la fonte di questa notizia? Secondo: oltre al titolo, avete letto cosa c’è scritto nell’articolo? Terzo: cosa ha effettivamente detto Pfizer nel suo testo originale? Ci vogliono cinque minuti per trovare le risposte a queste tre elementari domande.
Primo: la fonte è ”La Verità”, il che dovrebbe già far sollevare un sopracciglio, se non ogni singolo pelo del corpo.
Secondo: nel corpo dell’articolo è scritto: “Le valutazioni cliniche di laboratorio hanno mostrato una diminuzione transitoria dei linfociti che è stata osservata in tutti i gruppi di età e di dose dopo la [prima, nota mia] dose che si è risolta entro circa 1 settimana“. C’è scritto così, ho riportato il testo tale e quale. Sì: il titolo era un evidente click-bait.
Terzo: il testo originale di Pfizer è riportato nell’articolo, anche se sotto forma di un trafiletto estrapolato e appena leggibile. Con molto sforzo si vede che la traduzione è corretta. Non è riportata però la conclusione: “[diminuzione transitoria dei linfociti…] non associata a nessun’altra conseguenza clinica e non considerata clinicamente rilevante. In parole povere, per una settimana hai qualche linfocita in meno, ma il tuo sistema immunitario se ne accorge a stento.
Sì, lo so, hanno montato l’ennesima bufala e tanti ci sono cascati di nuovo. Mi dispiace, davvero. Però la prossima volta un po’ di attenzione in più.
Passiamo alle cose serie.
Secondo EMA, tra l’altro nella persona dell’italiano Marco Cavalieri, è necessaria particolare cautela nell’eventualità di una quarta dose (quarta dose) perché, se troppo ravvicinata alla terza, potrebbe avere un effetto negativo su un sistema immunitario che sta ancora digerendo le informazioni ricevute precedentemente. Questa è una cosa nota che riguarda tutti i vaccini, non solo quelli anticovid. Le attuali raccomandazioni congiunte di EMA e CDC suggeriscono di aspettare prima di proporre la quarta dose nella popolazione generale ed eventualmente riservarla alle persone molto anziane o comunque particolarmente a rischio. E infatti nessuno ci ha detto di metterci in fila, notato?
In tutto questo, stiamo pure tranquilli. Se ci saranno questioni rilevanti da conoscere, comprese scoperte di nuovi effetti avversi o di improvvisa inutilità o dannosità dei vaccini, lo verremo a sapere. Non da La Verità, dall’EMA.
Ma quale dispotismo! Il Green pass è libertà. Lettera a Cacciari, con un invito al confronto in pubblico
“Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri”. Il direttore di MicroMega replica al testo firmato dal filosofo in coppia con Giorgio Agamben.
Caro Massimo, perché mai, nel tuo testo (in coppia con Agamben), diramato dall’“Istituto di studi filosofici di Napoli” col titolo “A proposito del decreto sul green pass”, non hai speso una sola parola di indignazione, vituperio, condanna, per la “pratica di discriminazione” che non consente di guidare liberamente un’automobile (ma eventualmente anche un Tir, se aggrada), e impone di passare per le forche caudine di esami orali e scritti, solo al termine dei quali il cittadino (ma non è ormai così ridotto a suddito?) riceve un “green pass” definito “patente di guida”?
E perché mai non hai stigmatizzato l’insopportabile “regime dispotico” con cui in Italia si pretende un “green pass”, chiamato burocraticamente “porto d’armi”, per il libero cittadino (ridotto con ciò a suddito) che voglia girare con una P38 in tasca, mentre liberamente e gioiosamente un cittadino statunitense può acquistare al negozio d’angolo anche una Beretta pmx, una Skorpion Vz 61, una Thompson, e altri gingilli di libera autodifesa?
E perché non hai ricordato che queste nefaste pratiche discriminatorie hanno il loro antefatto nell’odiosa volontà (Legge 11 novembre 1975, n. 584, poi Legge 16 gennaio 2003, n 3, rafforzata dieci anni dopo con la “legge Sirchia”) di “purgare” i fumatori, discriminandoli col divieto d’ingresso nei cinema, teatri, ristoranti, caffè, treni, aeroporti, uffici, ghettizzandoli sui marciapiedi e in molti paesi cacciandoli infine anche dai luoghi aperti?
A me queste leggi antifumo sono sempre sembrate invece civilissime, e anzi libertarie. Perché mai dovrei essere costretto a inalare nicotina e catrame se voglio frequentare un luogo pubblico chiuso (o devo lavorare in uno spazio comune)? Ma in un luogo pubblico chiuso il fiato di un contagiato Covid è molto ma molto più dannoso degli sbuffi delle più micidiali Marlboro rosse o Gitanes papier mais.
Che senso ha trincerarsi dietro un generico “il dibattito scientifico è del tutto aperto”? Va da sé: il dibattito scientifico è sempre aperto, per definizione. Ma i dati delle ultime settimane sono costanti e inoppugnabili: contagi, ricoveri (e morti) dei non vaccinati sono, in proporzione al loro numero, dieci volte superiori a quelle dei vaccinati. La “libertà” di impestare il prossimo non è ancora stata introdotta tra i diritti umani e civili inalienabili, riforma costituzionale che il tuo testo solfeggia in filigrana, continua anzi a costituire una forma insopportabile non già di libertà ma di violenza, prepotenza, sopruso.
Le democrazie nascono impegnandosi a garantire l’endiadi “vita e libertà” dei cittadini, ma che vita e che libertà sono garantite a cittadini costretti a rischiare, in ogni luogo pubblico chiuso o all’aperto ma molto affollato, l’alito impestato di chi per privata prepotenza non vuole prendere l’unica misura che abbatte tale rischio: il vaccino? In realtà vi è, come noto (da secoli) un’altra misura: il distanziamento. Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha perciò nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri. Ai governi (il nostro compreso) si può e deve imputare – semmai – di non averla difesa e non difenderla abbastanza, questa comune libertà.
Che il “green pass” costringa a essere controllati e “tracciati” è infine pura menzogna. Vieni “tracciato” se lo usi sul telefonino con localizzatore, ma se te lo stampi (ci vuole un “clic”, appena più del teologico “fiat”), lo presenti dove è richiesto e nessuno ti “traccia”.
Infine, non è solo davvero fuori misura, ha piuttosto qualcosa di indecente e ingiurioso, evocare il passaporto interno di staliniana e brezneviana memoria o le misure di controllo del maoturbocapitalismo di Xi Jinping. Un’offesa sanguinosa ai milioni e milioni di vite umane che il totalitarismo comunista lo hanno subito davvero, carne e ossa, gulag e sangue. Spero che le righe in proposito siano uscite dalla penna del tuo sodale Agamben, che suona questo mostruoso refrain da anni, e tu le abbia accolte solo per momentanea debolezza.
Un abbraccio Paolo
p.s.
Caro Massimo, vedo che in una intervista a “La Stampa”, ripresa da Huffington Post e Dagospia, insisti, con argomentazioni che mi sembra restino più che mai claudicanti e infondate. Dato l’interesse del tema per tutti i cittadini, ti propongo di discuterne in pubblico e col pubblico, in una delle tante occasioni di controversie che stanno riprendendo “in presenza” (Convegni, Festival, Saloni, ecc.). Sono certo che, convinto come sei della forza delle ragioni che hai addotto, non ti sottrarrai al confronto.
Nel V secolo a.c., Erodoto ebbe modo di conoscere questo felino e gli diede il nome di Ailouros (“dalla coda mobile”), termine che presto venne sostituito da Gale, vocabolo greco utilizzato originariamente per la donnola, in età tarda si utilizzò invece kàttos da cui gatto.Una possibile origine semitica del vocabolo potrebbe essere attestata da un’opera armena del V sec., in cui si trova catu, a cui fa riscontro il siriano gatô. Cattus sarà all’origine del nome del gatto nella maggior parte delle lingue europee (cat inglese, katz tedesco, kat olandese, gato spagnolo e portoghese, chat francese, kochka russo).
Nell’antica Roma il gatto selvatico veniva invece detto Felis, da cui derivano i nostri felino, felide, ecc. Solo dal IV sec. d.c., compare il termine Cattus, forse di derivazione africana (nubiano kadis) o celto-germanica (nei cui idiomi viene variamente riprodotta, ad esempio: irlandese cat, antico tedesco chazza, antico scandinavo kötr).Il gatto arrivò a Roma più tardi rispetto alla Grecia anche se nei reperti archeologici degli etruschi sono state ritrovate piccole statue in pietra raffiguranti un gatto. I Romani, come i Greci, erano soliti usare altri carnivori, come la donnola, la faina e la martora, per il controllo dei topi, ma presto si accorsero che i gatti si addomesticavano più facilmente affezionandosi alla casa e ai proprietari, o almeno ad uno di essi.Durante le campagne di conquiste i romani li conobbero, li apprezzarono e li portarono con sé contribuendo alla sua diffusione in tutta Europa.
Tracce della presenza del gatto sono state rinvenute in tutte le regioni conquistate dai romani.Sia gli Etruschi che i Romani conoscevano il gatto, del quale apprezzavano i servigi sia come animale da lavoro (per debellare i topi) che da compagnia. I Greci invece li ignorarono e per cacciare i topi dalle loro case, si servivano delle donnole e dei colubri.Gli antichi Romani apprezzavano lo spirito indomito e curioso del gatto, tanto che la Dea Libertas, era spesso raffigurata in compagnia di un gatto. Nel I sec. d.c. anche a Roma, come precedentemente in Egitto, furono introdotte leggi severe volte a tutelare i gatti e la loro utilità contro i roditori.Nell’antica Roma i gatti erano sacri a Diana, si credeva che avessero poteri magici, concessi loro dalla Dea. La Dea latina Diana, associata alla luna, alla femminilità e alla magia, proteggeva la gravidanza e intratteneva un rapporto privilegiato con la natura, i boschi, gli animali e le piante.
Ella, per sedurre il fratello Apollo e concepire da lui un figlio, prese forma di gatto.L’introduzione nell’Impero Romano del culto di Bastet, poi identificata con la Dea Iside, rafforzò nei romani il culto del gatto sacro. In ogni città infatti vi era un tempio dedicato alla Dea, detto Serapeum. Nei templi di Iside i gatti giravano tranquillamente, sia al loro interno che nei suoi giardini, e la gente portava loro offerte di cibo. Ne esistevano pure diverse statue, praticamente tutte distrutte dall’intransigenza cristiana.A Roma l’amore per i gatti si manifestò dal sorgere di diversi nomi propri o addirittura cognomi con etimologia derivante dalla parola “gatto”: Felicula, Felicla (gattina o micina), Cattus, Cattulus (gatto, gattino). Alcuni reparti dell’esercito romano, in particolare i centurioni, sugli scudi recavano come simbolo gatti di colori differenti.Presso i romani, dunque, il gatto godette di un notevole favore, anche se non venne divinizzato come in Egitto.Le matrone si circondarono di gatti di ogni provenienza e colore, e i commercianti dei mari si organizzarono in tal senso, importandone da ogni paese e facendoli incrociare tra loro per ottenere razze più belle e più rare per cui più costose.
Le matrone mettevano collarini preziosi ai loro mici, come nastri di seta decorati di pasta vitrea e pure di pietre preziose, o, a imitazione degli egizi, gli ponevano degli anelli d’oro tipo piercing sul naso e sulle orecchie. I collarini si intonavano al colore del pelo o più spesso dal colore degli occhi, ritenuto molto importante per la preziosità dell’animale.Oppure, sempre sulla moda egizia che era seguitissima in epoca iulia, gli ponevano una pettorina ricamata e decorata.Con il I secolo d.c. il gatto completò la colonizzazione dell’Europa e continuò la sua collaborazione con l’uomo ricoprendo soprattutto ruoli di utilità come disinfestatore dei granai e delle abitazioni. Il gatto (o micio, che è in fondo il suo nome più antico) non teneva solo lontani i topi, ma pure le blatte, i ragni e perfino gli insetti, perché cacciava qualsiasi essere si muovesse nel suo territorio.
L’avvento del cristianesimo invece fu per i gatti una vera calamità. Nella follia cristiana di peccato ed espiazione anche gli animali, senza alcun motivo, vennero divisi in benefici e malefici, i gatti rientrarono tra questi ultimi, colpevoli forse di non essere manipolabili come i cani e gli umani, ma soprattutto di essere creature notturne e quindi demoniache. I prelati videro da sempre questo felino come fonte di peccato, accusandolo di portare con sé tutti i malefici possibili. Per di più, il gatto fu molto presto associato alla stregoneria: le streghe amavano trasformarsi in animali, in particolare in gatte; una donna che vivesse con i gatti, ritenuti inviati dal diavolo per aiutarla nei suoi incantesimi, diventava automaticamente una strega.Durante quest’era di oscurantismo, furono presi di mira soprattutto i gatti neri. Papa Gregorio IX (1170 – 1241) dichiarò i gatti neri stirpe di Satana nella sua bolla papale del 1233, con la quale prese avvio un vero e proprio sterminio di queste creature, torturate e arse vive al fine di scacciare il demonio.
La domanda è pienamente giustificata e probabilmente presente nella testa di molti cittadini, visto l’allarmismo che circola e la reazione di diversi stati che hanno sospeso per il momento la somministrazione di questo vaccino.
Ho parlato di “allarmismo” e non di “allarme”, perché personalmente sono convinto che si tratti di una reazione inopportuna nei confronti di un ritrovato efficace e nell’insieme statisticamente sicuro come gli altri. A mio avviso questa reazione un po’ isterica produce solo effetti deteriori come:
Un incremento dannoso della sfiducia nei confronti della profilassi vaccinale
Un rallentamento dei piani vaccinali che, ovviamente, prevedono anche il ricorso al vaccino di AstraZeneca
L’immagine qui sotto, ottenuta per estrapolazione dai dati attuali, mostra come questo vaccino rientri massicciamente nell’attuale pianificazione europea della lotta contro Covid-19. Si capisce che mettere i bastoni tra le ruote di tale programmazione possa comportare complicazioni non da poco, specie dopo le difficoltà logistiche che si sono profilate (e in merito alle quali resto comunque ottimista, anche per le pressioni esercitate da UE sulle case).
Un lato positivo della faccenda è che le autorità si dimostrano molto sensibili alla materia e non mancano occasione di attivarsi per eseguire tutti i controlli del caso. Devo dire per altri versi che questa attenzione potrebbe essere indotta anche da questioni politiche, ovvero per rassicurare la popolazione e ottenere consensi da essa, piuttosto che critiche per superficialità o irresponsabilità. In effetti, suppongo che le autorità dei vari paesi siano per lo più convinte che il vaccino di AstraZeneca non implichi particolari rischi per la salute.
Diverso è il discorso per la popolazione che sicuramente ha molti più dubbi, spesso fomentati dai media che esaltano ogni particolare pur di attirare lettori o spettatori. Siccome però la popolazione è quella che vota ed elegge i propri rappresentanti, ecco che i responsabili politici si sentono subito chiamati in causa. Il grafico qui sotto illustra le percentuali di persone interrogate in campioni di cittadinanza che vorrebbero cambiare i vari vaccini indicati.
Come si vede, AstraZeneca non gode al momento di buone credenziali presso il pubblico. Fa eccezione il Regno Unito dove il vaccino è nato ed è stato sviluppato. A mio modesto avviso, questa è la reazione più saggia nell’ambito delle popolazioni europee. Spicca invece l’emotività della Germania (dove esistono molti novax) e quella dell’Italia. Questo fa specie, perché in Italia l’adesione ai piani vaccinali è da sempre buona e lo scetticismo è minore che in altre nazioni, essendo concentrato più che altro nelle zone trentine.
In Svizzera (anche qui gli scettici sui vaccini sono ben il 50% della popolazione) la “cattiva reputazione” di quel vaccino ha condotto le autorità a decidere di venderlo. A mio avviso è una decisione errata (come considerato da alcuni virologi svizzeri), ma anche una buona occasione per altri di comprarlo, specie se a prezzo ribassato.
Mi asterrò dal fare considerazioni dietrologiche o cospirazionistiche non comprovabili sulle eventuali ragioni del discredito gettato su questo prodotto; se ne possono produrre a bizzeffe, il che è come non dire alcunché di utile. Può darsi che tra qualche giorno salteranno fuori delle cosiddette “morti sospette” anche per altri ritrovati vaccinali. Lungi da me l’idea di polemizzare e di citare complotti di un tipo o dell’altro, mi limiterò qui a un paio di semplici considerazioni di buon senso relativamente alla domanda posta. Per semplicità, concentriamoci solo sull’Italia.
Ogni anno muoiono in Italia per le più disparate cause una quantità di persone che formano un’intera città di grandi dimensioni. Nel 2020 sono deceduti 746.146 soggetti, il che significa 2044 morti al giorno.
La popolazione italiana attuale ammonta a 60.317.000 milioni di cittadini. Pertanto i morti quotidiani di cui sopra sono 1 su 33.888. Al momento le dosi somminstrate sono 6.610.347. Da ciò risulta che oggi (data di questo post) circa l’11% della popolazione ha ricevuto almeno un’iniezione. Il calcolo non distingue tra prima e seconda dose, ma risulta abbastanza preciso. Infatti, si può verificare che circa il 3,3% della popolazione ha ricevuto entrambe le dosi e circa 7,8% solo la prima iniezione.
Il grafico delle somministrazioni giornaliere nel tempo, iniziate a fine dicembre 2020, è quello sotto riportato:
La correlazione evidenziata (impropriamente) dai media tra i decessi e la vaccinazione col prodotto di AstraZeneca risale agli ultimi quattro giorni circa. Si vede che in quei giorni la somminstrazione ammonta a circa 60.000 dosi giornaliere. Una media di circa 120.000 dosi compete invece al prodotto di Pfizer/BioNTech. I vaccinati quotidiani col prodotto Moderna sono una minoranza, circa 10.000. Abbiamo in totale circa 760.000 vaccinati nei quattro giorni del presunto effetto deleterio del vaccino.
I soggetti vaccinati con Pfizer/BioNTech sono il 63%, quelli con AstraZeneca il 32% e quelli con Moderna il 5%. Abbiamo visto poc’anzi che si contano 2044 morti quotidiane in Italia per motivi di ogni tipo (incluso Covid-19). Su quattro giorni dovrebbero dunque essere 8176. Proviamo a spalmarle sulle percentuali dei vaccinati.
Questi sono l’11% della popolazione. In questa categoria dovrebbero dunque ricadere 900 morti all’incirca. Il 63%, cioè circa 570 decessi, dovrebbero ricadere nella categoria Pfizer/BioNTech. Il 30%, cioè 270 decessi, dovrebbero competere alla categoria AstraZeneca. Il 5%, cioè 45 decessi, dovrebbero rientrare nel gruppo Moderna.
Quante persone sono morte dopo aver ricevuto la profilassi vaccinale col prodotto “incriminato” in Italia negli ultimi quattro giorni? Non ho dati a disposizione, ma oggi si parla di 5 persone decedute per cuase “sospette”. In sostanza, se spalmassimo omogeneamente le morti quotidiane d’Italia sull’aliquota di cittadini che hanno ricevuto il vaccino di AstraZeneca dovremmo aspettarci una media di 270 morti consuete al giorno, invece, dopo la scrematura dei media, ne abbiamo 5 sospette.
Si dirà: si ma il campione di vaccinati non è rappresentativo della popolazione italiana. Questo è vero. Infatti, i decessi totali annuali della nazione riguardano soprattutto persone anziane, mentre i cittadini designati per ricevere il vaccino AstraZeneca non sono persone particolarmente a rischio, come invece nel caso della profilassi con Pfizer/BioNTech. Si veda la grafica qui sotto che illustra il piano vaccinale italiano in quattro fasi temporali:
La platea di cittadini da vaccinare col prodotto incriminato non è dunque rappresentata da individui particolarmente esposti a rischio sanitario, perché non sono coinvolte persone anziane. In effetti, il vaccino non era stato testato fino in fondo nei soggetti con più di 55 anni, il che ha indotto alcuni decisori politici a non impiegarlo sugli anziani. Nessuno esclude però che tra questi soggetti siano presenti ipertesi, cardiopatici, obesi, diabetici o altri soggetti con comorbilità varie. Non è però questo il punto della questione.
Il fatto critico è invece che su questo campione è più semplice effettuare controlli. Ebbene, due autopsie sono già state effettuate ed è stato già affermato (anche se la documentazione non è ancora disponibile) dai patologi che non è stato riscontrato alcun effetto dannoso sull’organismo riconducibile al vaccino AstraZeneca. L’Aifa ha da parte sua escluso un nesso di causalità tra le morti in oggetto e quella specifica vaccinazione.
Si aspettano gli esiti, che arriveranno a breve, delle altre autopsie. Scommetterei sul risultato. Volendo proprio fare i pessimisti, abbiamo comunque a che fare alla data di oggi con 3 casi residui, cosiddetti “sospetti”, contro una media di 270 attesi.
Dobbiamo considerare che l’incidenza di decessi è decisamente ridotta nel campione e che quindi presenta inevitabilmente oscillazioni non lievi nel corso del tempo. Potrebbe quindi succedere che nei prossimi giorni si annoverino ben più di 5 decessi tra i vaccinati con Astrazeneca. Tuttavia, per quanto i morti statistici possano variare nel corso dell’anno, per quanto le fasce d’età facciano una differenza, per quanto i calcoli illustrati siano grossolani, mi sembra che la disparità negli ordini di grandezza parli chiaro:
3 casi sospetti riscontrati in un arco temporale di quattro giorni contro 270 totali attesi!
Mi sembra che questo dato porti a ritenere davvero irrazionale un timore che quel vaccino sia all’origine di eventi tromboemolitici, di infarti o di quant’altro possa minare la sopravvivenza di un vaccinato.
Gli effettivi problemi con i vaccini esistono, nulla è sicuro al 100% a questo mondo, nemmeno in ambito farmacologico. Tuttavia, i casi problematici con i vaccini sono rarissimi nell’esperienza medica. Essi vanno solitamente ricondotti alla reazione di pazienti iperallergici, alla contaminazione del preparato da parte di batteri o alla presenza accidentale di piccole particelle di vetro nella dose. Gli esperti escludono che sia questo il caso (in effetti certi batteri possono provocare la formazione di coaguli disseminati).
Ricordiamo poi che il rischio di un vaccino va paragonato al rischio che compete a una mancata vaccinazione, tanto a livello individuale quanto a quello collettivo. Il primo rischio è di interi ordini di grandezza inferiore al secondo.
Nel Regno Unito sono state somminstrati 17 milioni di dosi col vaccino AstraZeneca, anche agli over 55, e non è stato segnalato alcun problema riconducibile al vaccino che fosse inerente alla formazione di coaguli, al tromboembolismo polmonare, alla trombosi venosa profonda, alla trombocitopenia e nemmeno a patologie di altra natura.
A livello europeo abbiamo 30 casi di eventi trombotici su 5 milioni di dosi iniettate. Un numero minimo e perfettamente in sintonia con la casistica dei trial eseguiti dalla casa farmaceutica. Naturalmente, nemmeno questi casi riscontrati nei test o, poi, a livello di profilassi europea implicano che sia stato il vaccino a causare il problema trombotico. Sono evenienze che fanno parte della statistica.
Questo vuol dire anche che nel corso delle prossime settimane e dei prossimi mesi dobbiamo aspettarci altri morti che seguono a una vaccinazione o all’altra. Si tratta di una circostanza data dal gioco del caso, cioè dall’immancabile presenza di decessi che si distribuiscono nel tempo, indipendentemente dalla pratica vaccinale. Alcuni di questi eventi compaiono a ridosso dell’iniezione. Un fatto normale.
Insomma, a che si deve tutto questo can-can su AstraZeneca? Posto che il principio di precauzione impone sempre i dovuti controlli e che questi debbano essere effettuati a dovere e resi pubblici, io farò un’affermazione che potrà apparire antipatica a taluni, ma di cui sono convinto; e sono anche sicuro di essere in buona compagnia di diversi studiosi. Il fatto è che molte persone che sollevano polveroni inutili, a digiuno di cognizioni scientifiche, ancora non accettano quanto segue:
Correlazione non significa causalità
La gente muore tutti i giorni e alcune persone muoiono dopo essersi vaccinate. Ma questo non vuol dire che quelle persone siano decedute per colpa del vaccino. L’unica realtà sicura è che siano morte dopo il vaccino, a distanza di un intervallo di tempo più o meno lungo. Punto. “Dopo” non vuol dire “a seguito di”.
La formazione di coaguli nel sangue che possono anche rivelarsi letali è purtroppo una realtà diffusa, ancorché per fortuna minoritaria. Non fa specie che essa possa presentarsi anche in un certo numero di vaccinati. Quel numero, al momento, si è però dimostrato persino minore delle attese.
Il grafico qui sopra è un esempio classico del discorso qui condotto. Una linea mostra l’andamento negli anni del numero di apparizioni di Nicolas Cage nei film, l’altra l’andamento negli stessi anni del numero di annegati in piscina. I due andamenti hanno una buona correlazione, ma questo non significa affatto che un fenomeno sia all’origine dell’altro. A meno di non avere qualche rotella fuori posto.
Usando la correlazione possiamo mettere a confronto le più disparate dinamiche nei più disparati contesti e con le più disparate intenzioni. Si tratta di un tentativo spesso utilizzato anche da chi “gioca sporco“, ovvero da chi vuole dimostrare una tesi senza avere realmente argomenti forti a suo favore. Ma questo non implica ancora che stiamo costruendo una teoria atta a prevedere qualcosa, come per esempio un incremento di decessi legati al ricorso al vaccino AstraZeneca.
Quello che possiamo invece prevedere con una certa verosimilgianza – data la pianificazione e i contratti in essere – è che se i timori sul vaccino AstraZeneca sono infondati (come ritengo), ebbene l’impedimento prolungato al suo uso causerà una serie di mancate profilassi e quindi di morti che, invece, sono evitabili.
Che si aspettino i dovuti controlli, ma che non si perda troppo tempo sotto l’influsso dell’emotività!
P.S.
Chiarisco un punto a posteriori. Un utente ha fatto un commento errato, ma la confusione (statistica) mi ha fatto venire in mente che il mio post potrebbe essere equivocato. Vorrei quindi prevenire la circostanza. Forse, per maggior chiarezza era il caso di specificarlo prima.
Il numero di decessi segnalati dai media dopo verifica autoptica è di 3 casi di morti “sospette” contro 270 attese nel gruppo AstraZeneca, con i dati aggiornati alla data del post. Naturalmente, le statistiche su lassi di tempo brevi e con minoranze estreme possono essere ballerine. Va però tenuto in considerazione un altro aspetto.
A prescindere dalle oscillazioni che pure contano, 3 casi su 270 possono sembrare perfino troppo pochi. Perché è così? Il fatto è che i media cercano di segnalare ad effetto casi che “potrebbero” essere ricondotti al vaccino per una ragione o l’altra (coagulopatia, infarto, reazione anafilattica, infiammazione acuta, ecc). Pertanto, escludono tutte le morti chiaramente indipendenti: morti violente, malattie gravi pregresse, intossicazioni, ecc. Si capisce che con questa scrematura i morti si riducono.
Bisogna dunque ricordare che stiamo confrontando 270 morti totali attese e consuete che avvengono per svariate cause nel gruppo di AstraZeneca con 3 morti ritenute “sospette”, anch’esse a eziologia indefinita. La coagulopatia è solo una causa indicata, anche se al momento pare la più esaltata. I trombi sono peraltro una causa di morte a incidenza non irrilevante anche tra persone sane e non anziane.
Ora, su 270 morti totali consuete 3 non hanno ancora una causa che con certezza possa essere ritenuta indipendente dal vaccino. A me sembra proprio che si tratti di un fattore che non dovrebbe in alcun caso allarmare. Abbiamo insomma 1% di casi ritenuti “sospetti” solo perché non sono morti violente, da intossicazione, ecc.
Si fumava, ovunque, tantissimo. Nei bar, nei ristoranti e al cinema, ma anche in macchina, con bambini presenti o nell’ascensore con altre persone. Era ASSOLUTAMENTE normale.
Era normale essere poveri. Non che tutti fossero poveri, ma era assolutamente normale conoscere famiglie di 5 persone, che vivevano in alloggi di 2 camere con bagno sul ballatoio. I genitori e il figlio più piccolo dormivano in una camera e gli altri in cucina con un divano letto aperto per la notte. In tanti vivevano così, in modo onesto e con dignità.
Erano molto frequenti scioperi e manifestazioni. E se vedevi una manifestazione, era meglio allontanarsi velocemente, perchè molto facilmente da lì a poco sarebbe finita a lacrimogeni e sassaiola, se non peggio. Il livello di scontro politico era altissimo e anche le manifestazioni più pacifiche potevano facilmente degenerare.
C’era un’inflazione inconcepibile per noi oggi (in alcuni anni superiore al 24% ), quindi la gente, se riusciva a risparmiare qualcosa, cercava di non tenere i soldi in banca, visto che venivano costantemente erosi. Per questa ragione nasce il boom dell’acquisto delle case e dei BOT-CCT.
Era comunissimo trovare siringhe usate per strada, in piazza e nei giardini, e le piazze e i giardini, la sera erano spesso dei posti da evitare. La diffusione delle droghe pesanti era enorme, fino alla fine degli anni ’80, in una grande città era quasi inevitabile incrociare tossicodipendenti in cerca di qualche spicciolo, o schiantati a terra in overdose. Specialmente nei giardini pubblici o in prossimità della stazione. Praticamente tutti conoscevano il figlio di amici o parenti che aveva problemi con l’eroina, in molti hanno avuto un lutto a causa della droga.
TUTTI e sottolineo TUTTI leggevano almeno un giornale, anche chi era meno benestante raramente rinunciava ad acquistare un quotidiano al mattino andando a lavoro. Chi proprio non poteva permetterselo, lo leggeva al bar prendendo il caffè, ma era inconcepibile che un adulto non si informasse leggendo almeno un quotidiano. Il Corriere della Sera, il quotidiano più venuto, superava le 800.000 copie di tiratura, ma tutti gli altri maggiori quotidiani “nazionali”, erano stabilmente sopra le 400.000 copie. Anche un giornale “di nicchia” come L’Unità, l’organo del PCI, si attestava a circa 250.000 copie vendute al giorno!
CITTA’ E TRASPORTI
Le automobili potavano circolare liberamente quasi ovunque e la maggior parte delle piazze, anche fra quelle di enorme valore artistico o storico, erano trasformate in parcheggi a cielo aperto. Per questa ragione tutti i palazzi e monumenti mostravano una patina di smog perenne, che rendeva il grigio il colore predominante in tutte le grandi città.
Giravano un sacco di automobili in pessime condizioni, con un fumo nero e denso che usciva dallo scappamento e/o gomme completamente lisce, freni che fischiavano per il consumo delle pastiglie, frecce e luci in disordine etc. Non c’era la revisione obbligatoria, quindi tante persone andavano avanti senza fare manutenzione all’auto, fin quando non cadeva letteralmente a pezzi.
Pochissimi usavano il casco in moto. Non era obbligatorio, pochissimi lo usavano in generale, praticamente nessuno d’estate.
Nessuno usava la cintura di sicurezza. La maggior parte delle macchine nemmeno le aveva installate.
Pochissimi rispettavano le strisce pedonali. Attraversare sulle strisce era pericoloso esattamente come attraversare in qualunque altro punto della strada.
Era comune gettare le cartacce per strada, o svuotare il posacenere dal finestrino della macchina. Non che tutti lo facessero, ma era normalissimo vederlo fare.
COMMERCIO
La domenica TUTTI i negozi e supermercati erano chiusi. Le famiglie si organizzavano facendo una spesa più grande il sabato e, nel caso mancasse qualcosa, tipo il pane, il burro, zucchero o le uova, era normale chiedere ai vicini di casa se ne avevano in avanzo da prestare. Lo stesso per le sigarette: tipicamente l’unico tabaccaio aperto anche la domenica era quello della stazione, e nemmeno sempre. Dai noi l’eccezione era Cocciola.
C’erano negozi estremamente specializzati in ogni settore merceologico: c’erano negozi vendevano solo guanti, negozi che vendevano solo cappelli, ma anche cose più di nicchia, come negozi che vendevano solo burro e uova. Il latte lo trovavi solo in latteria. C’erano tantissime cartolerie, librerie e negozi di dischi.
Esistevano piccole botteghe dedicate esclusivamente al gioco del lotto: il lotto non era gestito da bar o tabaccai come oggi, ma da piccole ricevitorie con personale “altamente specializzato”; in grado di dare consigli su cosa giocare in base ai sogni o ai numeri ritardatari. All’avvicinarsi del termine ultimo per fare le giocate (non ricordo se venerdì sera o sabato mattina) si formavano lunghe code, soprattutto se c’era un numero particolarmente ritardatario o c’era stato un importante avvenimento da cui trarre auspici. Non so se in altre città esistano ancora, ma a Torino non vedo più ricevitorie da almeno 35–40 anni.
La maggior parte degli acquisti venivano fatti, quotidianamente, nelle botteghe del quartiere. Spesso si comprava a credito e si saldava il conto a fine mese, all’arrivo dello stipendio. I supermercati erano pochi, erano solo nelle grandi città e non esistevano i centri commerciali.
C’erano tantissimi cinema a luci rosse: gran parte delle sale di seconda e terza visione si convertirono al cinema porno, che era diventato un business enorme. Non era raro che fuori dai cinema porno ci fosse la file per entrare e, almeno nelle sale più chic o in caso di titoli particolarmente celebri, il pubblico fosse formato anche da coppie, curiose di quella novità. Questo continuò fino all’avvento delle videoteche, a inizio anni ’80.
VITA DOMESTICA
Quasi tutte le case avevano la tappezzeria, anziché i muri a vista: c’era l’idea che la tappezzeria fosse più semplice da lavare e si potesse anche applicare su muri non perfettamente rasati. Per risparmiare, spesso la nuova tappezzeria veniva applicata sulla vecchia.
Tipicamente in casa c’era un solo televisore da cui tutta la famiglia, la sera, guardava lo stesso programma (c’erano solo 2 programmi TV). Chi non era interessato, leggeva o, se la casa era abbastanza grande, ascoltava la radio. Le trasmissioni TV finivano alle 23.30 e riprendevano in tarda mattinata. Al pomeriggio i programmi erano sospesi fino alle 17 (quando iniziava la TV dei ragazzi) per non distrarre i bambini dai compiti.
Si trasmetteva pochissimo calcio in televisione, ma era sempre gratis. Le uniche partite di calcio tramesse in TV erano (alcune) delle coppe europee e della coppa Italia. Per vedere immagini delle partite di campionato bisognava aspettare 90° Minuto o, per avere servizi un po’ più ricchi, la domenica sportiva alla sera. Al tardo pomeriggio della domenica inoltre veniva trasmessa la sintesi di circa 40′ della partita più importante della giornata. L’unico modo per seguire in diretta una partita senza andare allo stadio era armarsi di tanta fantasia e ascoltare la radiocronaca su Tutto il Calcio minuto per minuto sulla RAI o su una delle radio private che iniziavano, appunto, a trasmettere le dirette integrali dallo stadio.
Ovviamente non esistevano i cellulari. Quasi tutti avevano il telefono fisso domestico, ma bisognava sperare che la persona che si cercava fosse in casa. Esistevano, ma erano poco diffuse e costosissime, le segreterie telefoniche. In compenso c’erano tantissimi telefoni pubblici, sia in cabine per la strada, sia nei bar. Funzionavano con i gettoni telefonici, anziché con le monete. Nonostante l’assenza di cellulari, le persone riuscivano a incontrarsi lo stesso: ci si dava un appuntamento qualche giorno prima a una data ora e in un dato luogo, senza sentire la necessità di chiamare o messaggiare compulsivamente ogni 5 minuti per dare conferma. Ai millennials sembrerà incredibile, ma funzionava anche per gli appuntamenti galanti.
La maggior parte delle donne, una volta sposata e diventata madre smetteva di lavorare per occuparsi dei figli. La famiglia quindi dipendeva totalmente dal reddito del marito.
Tempo fa un NOTO RELIGIOSO, dalle onde radio di Radio Maria, ha risposto ad un ascoltatore che l’OMOSESSUALITA’ E’ UN ABOMINIO, perchè a dirlo è la BIBBIA (Levetico, 18,22). Un ABOMINIO CHE NON PUO’ ESSERE TOLLERATO IN NESSUN CASO. Quello stesso ascoltatore ha scritto questa lettera al NOTO RELIGIOSO… Lettera del 16 maggio 2009
“Caro sacerdote, le scrivo per ringraziarla del suo lavoro educativo sulle leggi del Signore. Ho imparato davvero molto dal suo programma, e ho cercato di condividere tale conoscenza con più persone possibile. Adesso, quando qualcuno tenta di difendere lo stile di vita omosessuale, gli ricordo semplicemente che nel Levitico 18:22 si afferma che ciò è un abominio. Fine della discussione. Però, avrei bisogno di alcun consigli da lei, a riguardo di altre leggi specifiche e come applicarle.
– Vorrei vendere mia figlia come schiava, come prevede Esodo 21:7. Quale pensa sarebbe un buon prezzo di vendita?
– Quando do fuoco ad un toro sull’altare sacrificale, so dalle scritture che ciò produce un piacevole profumo per il Signore (Levitico 1.9). Il problema è con i miei vicini. Quei blasfemi sostengono che l’ odore non è piacevole per loro. Devo forse percuoterli?
– So che posso avere contatti con una donna quando non ha le mestruazioni (Levitico 15:19-24). Il problema è: come faccio a chiederle se ce le ha oppure no? Molte donne s’offendono.
– Levitico 25:44 afferma che potrei possedere degli schiavi, sia maschi che femmine, a patto che essi siano acquistati in nazioni straniere. Un mio amico afferma che questo si può fare con i filippini, ma non con i francesi. Può farmi capire meglio? Perché non posso possedere schiavi francesi?
– Un mio vicino insiste per lavorare di sabato. Esodo 35:2 dice chiaramente che dovrebbe essere messo a morte. Sono moralmente obbligato ad ucciderlo personalmente?
– Un mio amico ha la sensazione che anche se mangiare crostacei è un abominio (Levitico 11:10), lo è meno dell’omosessualità. Non sono d’accordo. Può illuminarci sulla questione?
– Levitico 21:20 afferma che non posso avvicinarmi all’ altare di Dio se ho difetti di vista. Devo effettivamente ammettere che uso occhiali per leggere … La mia vista deve per forza essere 10 decimi o c’è qualche scappatoia alla questione?
– Molti dei miei amici maschi usano rasarsi i capelli, compresi quelli vicino alle tempie, anche se questo è espressamente vietato dalla Bibbia (Levitico 19:27). In che modo devono esser messi a morte?
– In Levitico 11:6-8 viene detto che toccare la pelle di maiale morto rende impuri. Per giocare a pallone debbo quindi indossare dei guanti?
– Mio zio possiede una fattoria. E’ andato contro Levitico 19:19, poiché ha piantato due diversi tipi di ortaggi nello stesso campo; anche sua moglie ha violato lo stesso passo, perché usa indossare vesti di due tipi diversi di tessuto (cotone/acrilico). Non solo: mio zio bestemmia a tutto andare. È proprio necessario che mi prenda la briga di radunare tutti gli abitanti della città per lapidarli come prescrivono le scritture? Non potrei, più semplicemente, dargli fuoco mentre dormono, come simpaticamente consiglia Levitico 20:14 per le persone che giacciono con consanguinei?
So che Lei ha studiato approfonditamente questi argomenti, per cui sono sicuro che potrà rispondermi a queste semplici domande. Nell’occasione, la ringrazio ancora per ricordare a tutti noi che i comandamenti sono eterni e immutabili.
Da sole, naturalmente, le statistiche dicono poco. Ma insieme questi fatti parlano molto. La storia che stanno iniziando a raccontare è questa.
L’America, a quanto pare, sta diventando qualcosa come il primo paese povero del mondo. E questo è l’elefante nella stanza che non stiamo abbastanza afferrando. Dopotutto, l’autoritarismo e l’estremismo non sorgono nelle società prospere – ma in quelli problematici, che si stanno impoverendo, come l’America è oggi. Cosa intendo per tutto questo?
Iniziamo con ciò che non intendo. Non intendo la povertà assoluta. Gli americani non vivono con pochi dollari al giorno, in linea di massima, come ad esempio la gente della Somalia o del Bangladesh. Il reddito mediano dell’America è ancora quello di un paese ricco, intorno ai $ 50k, a seconda di come viene contato. Né intendo davvero povertà relativa – persone che vivono al di sotto del reddito medio. Mentre questo è un problema crescente in America, perché la classe media sta implodendo, non è proprio questo il vero problema a cui questi numeri accennano.
L’America sembra pioniere di un nuovo tipo di povertà. Uno per il quale non abbiamo ancora un nome. È qualcosa come vivere ai margini del coltello, essere costantemente sull’orlo della rovina, a un piccolo passo dalla catastrofe e dal disastro, sempre con il rischio di cadere attraverso le fessure. Ha due componenti: un’inflazione massiccia per le basi della vita, unita a un rischio schiacciante e asimmetrico. Verrò a quello che vogliono dire a breve.
L’americano medio ha un reddito relativamente alto, quello di una persona in un paese nominalmente ricco. Solo le sue entrate non vanno molto lontano. La maggior parte viene mangiata cercando di offrire le basi della vita. Abbiamo già visto quanto siano elevati i costi sanitari. Ma poi c’è l’educazione. C’è il trasporto. C’è interesse e affitto. Ci sono media e comunicazioni. C’è assistenza all’infanzia e agli anziani. Tutte queste cose riducono l’americano medio a vivere costantemente ai margini della rovina: uno stipendio lontano dalla miseria, un’emergenza che non va persa.
Ma questo non è vero per i colleghi americani. In Europa, in Canada e persino in Australia, la società investe in tutte queste cose e i costi delle società di base che le società non forniscono sono regolamentati. Per esempio, pago $ 50 dollari per la banda larga e la TV a Londra – ma $ 200 per la stessa cosa a New York – eppure a Londra, ottengo mezzi di comunicazione molto più numerosi e migliori per me (anche includendo, sì, spazzatura americana come Ancient Aliens) . Questa è una regolamentazione al lavoro. E quando beni di base come l’assistenza sanitaria o l’assistenza agli anziani o l’istruzione sono forniti e gestiti a livello sociale, è quando sono più economici, e spesso anche della migliore qualità. Quindi, l’assistenza sanitaria costa molto meno a Londra, Parigi o Ginevra e anche l’aspettativa di vita è più lunga.
Quindi, se stai guadagnando $ 50k in America, è una cosa molto diversa da guadagnare $ 50k in Francia, Germania o Svezia – in America, devi pagare in modo vertiginoso per le basi della vita, per le necessità di base. Così, i redditi si estendono molto più in altri paesi, che godono di una qualità della vita molto più alta, anche se le persone lì guadagnano all’incirca la stessa quantità, perché pagano molto meno per i beni di prima necessità. Gli americani sono ricchi, ma solo nominalmente – i loro soldi non acquistano quasi quanto i loro pari, dove conta e conta di più, per le basi della vita.
Cosa succede quando le società non capiscono tutto quanto sopra? Bene, una cosa strana è accaduta all’economia americana. Mentre è vero che cose come TV e Playstation sono diventate più economiche, i costi delle basi della vita sono saliti alle stelle. Tutte le cose che realmente migliorano la qualità della vita delle persone – sanità, finanza, istruzione, trasporti, alloggio e così via – sono arrivate a consumare una quota così elevata del reddito della famiglia media che hanno ben poco da salvare, investire o spendere su qualsiasi altra cosa E quel che è peggio, mentre le basi della vita hanno visto inflazione massiccia, salari e redditi (per non parlare di risparmi e benefici, reti e opportunità di sicurezza) per la maggior parte sono rimasti fermi. Il risultato è un’economia – e una società – che sta collassando.
Tuttavia,
tutto questo è l’effetto diretto di dare, per esempio, il controllo degli hedge fund sulle droghe, o il controllo degli speculatori su alloggi, sanità e istruzione – ovviamente massimizzeranno i profitti, mentre investono in queste cose socialmente, o almeno regolandole, minimizza i costi reali e massimizza l’accessibilità, l’accessibilità e la qualità.
Quindi l’americano medio, che è rimasto alto e asciutto, deve prendere in prestito, prendere in prestito, prendere in prestito, solo per mantenere una qualità di vita decente – perché consegnare il controllo del capitalismo alle basi della vita ha causato un’inflazione massiccia, schizzata alle necessità, mentre flatlining il suo reddito . In fin dei conti, l’assistenza sanitaria non costava la metà del reddito medio di un decennio fa, ma ora lo fa. Quindi cosa succede quando, in un decennio o due, l’assistenza sanitaria costa tutto ilreddito mediano? Come può un’economia – per non parlare di una società – funzionare in questo modo?
Bene, cosa succede se l’americano medio supera la linea? Manca una rata del mutuo, si ammala e non è in grado di pagare alcune bollette in tempo, non può pagare i costi dell’assistenza sanitaria? Quindi vengono puniti severamente e senza pietà. Il loro “rating” (nota come le banche e gli hedge fund non li hanno) è rovinato. Possono facilmente ritrovarsi per strada, senza finanziamenti, senza una seconda possibilità, senza accesso a nessun tipo di riparazione o supporto. E poi vengono rifiutati, evitati e ostracizzati. Potrebbero non avere più un indirizzo – quindi chi li assumerà? Non fanno più parte della società – sono caduti attraverso le fessure e trovare la via del ritorno è spesso quasi impossibile. Rischio asimmetrico: le società, le lobby e le banche non corrono alcun rischio, proprio perché l’americano medio le sopporta tutte ora.
Quindi gli americani non sono solo assolutamente o relativamente poveri, ma poveri in un modo completamente nuovo. In primo luogo, le basi della vita sono esplose nel prezzo, al punto che ora sono inaccessibili per molte, forse la maggior parte, le famiglie. In secondo luogo, gli americani si assumono il rischio di pagare quei costi insostenibili a un livello estremo, con i rischi che le istituzioni dovrebbero, e quindi quei rischi sono ora rovinosamente alti . Una banca o un hedge fund o una società potrebbero andare in bancarotta e liquidare le sue attività, ei suoi proprietari rimangono ricchi – ma se il rating di un americano è rovinato, perde il lavoro, non può pagare le sue bollette, o anche se dichiara bancarotta, cade le crepe, perseguitato, merlato, istituzionalmente segnato dal nero. Si ritrova fuori dalla società, con un piccolo modo di rientrare. Non c’è da stupirsiGli americani lavorano molto più duramente che altrove: sono sempre ad un passo dal perdere tutto, dalla vera rovina, ma i loro pari in paesi veramente ricchi non lo sono.
Marx probabilmente avrebbe chiamato questa immiserimento. I teorici neo-marxisti lo chiamano precarietà.
E mentre c’è la verità in entrambe le idee e le prospettive, penso che manchino tre punti vitali.
Non vediamo l’America come un paese povero, ma dovremmo cominciare. Gli americani vivono vite abbastanza abissali – brevi, solitarie, infelici, piene di lavoro, stress e disperazione, rispetto ai loro coetanei. Questo perché non possono permettersene di migliori: il capitalismo predatore unito alla totale cattiva gestione economica degli investimenti sociali ha reso le basi della vita rovinosamente inaccessibili. In questo modo, è effettivamente un paese povero – sì, c’è un piccolo numero di ultra-ricchi, ma ora sono fuori misura, fuori dalla mappa del normale. Perché non è solo un tipo di povertà, la povertà di ieri, o anche la povertà come siamo abituati a pensarci.
L’America sta sperimentando un nuovo tipo di povertà. Il tipo di povertà sviluppato in America non è solo bizzarro e macabro: è nuovo e invisibile. Non è qualcosa che comprendiamo bene, economisti, intellettuali, pensatori, perché non abbiamo una buona struttura per pensarci. Non è la povertà assoluta come la Somalia, e non è solo una povertà relativa, come nelle repubbliche delle banane dorate. È una creazione unicamente americana. Il capitalismo estremo incontra il darwinismo sociale attraverso una robusta autosufficienza attraversata da crudeltà puritana.
Il tipo di povertà che oggi il pioniere dell’America non è assoluto, o relativo,
ma qualcosa di più simile alla povertà perfettamente sintonizzata, alla povertà strategica, alla povertà di base – persone nominalmente benestanti il cui denaro non è abbastanza lontano da farle vivere bene, vivendo costantemente ai margini della rovina, e così costretti a soffocare la loro rabbia amara e servire gli stessi sistemi che opprimono e soggiogano con sempre più indegnità, paura e servilismo entro l’anno.
L’America è ancora un innovatore oggi. Sfortunatamente, ciò che sta innovando ora è un nuovo tipo di povertà. Eppure la povertà è povertà. Cosa succede nelle società in cui la povertà sta crescendo? L’autoritarismo aumenta, poiché le persone perdono la fiducia nella democrazia, che non sembra offrire loro un contratto sociale funzionante. L’autoritario diventa abbastanza presto fascismo – “questo paese, questa terra, il suo raccolto – è solo per il vero volk!”, Il grido sale, quando non c’è abbastanza per andare in giro. E il resto della storia cupa e cupa della caduta nell’abisso dovresti saperlo abbastanza bene ormai. Finisce in parole che non diciamo.
Eppure, la storia, ridendo, ci ha raccontato questa storia molte volte. E lo dice a domani, ancora, nel racconto del collasso americano.
Come si è costruito, al netto degli errori, lo stigma contro Matteo Renzi? Come e perché è stato possibile che quel ragazzo di 39 anni che aveva fatto sognare il centrosinistra con la straordinaria vittoria alle europee è precipitato bruscamente nel consenso e viene dipinto da tutti come il male assoluto? Ecco come è stata pazientemente fabbricata, pezzo dopo pezzo, l’immagine negativa del giovane fiorentino. E vi spiego anche perché questo è avvenuto.
I problemi del nostro paese si sono accumulati in decenni di malgoverno (clientelismo, statalismo nepotistico, mancata costruzione di una pubblica amministrazione efficiente, consenso conquistato e mantenuto, soprattutto negli anni 80, con l’aumento del debito pubblico etc.etc. corruzione endemica, evasione fiscale altissima).
Eppure oggi il bersaglio principale per gli italiani si chiama Matteo Renzi, omettendo di dire che il giovane fiorentino è stato protagonista solo degli ultimi 4 anni, un periodo troppo breve per aver combinato i disastri che gli si addebitano. Gli rimproverano di tutto, manca solo l’accusa (ma prima o poi arriverà) di essere un complice del mostro di Firenze. Da sinistra a destra, dal nord al sud l’80% degli italiani non lo sopportano, lo giudicano antipatico, indirizzano contro di lui ogni loro malessere incolpandolo di ogni cosa, perfino del fatto che la sera prima hanno litigato furibondamente con la moglie mettendo in crisi il proprio matrimonio.
Matteo Renzi, suo malgrado, è diventato una specie di signor Maulaussene, una specie di capro espiatorio che serve ad assolvere tutti gli altri, e la storia di questo paese, per le difficoltà in cui ci troviamo.
Ma come e perché è stato possibile che quel ragazzo di 39 anni che aveva fatto sognare il centrosinistra con la straordinaria vittoria alle europee quando è arrivato alla soglia dei 43 anni è precipitato bruscamente nel consenso e dipinto da tutti, dal professore universitario al barista sotto casa, come il male assoluto?
C’è qualcosa di più profondo e di più strutturale della sua semplice antipatia e di un carattere non certamente facile oscillante tra la battuta salace immediata e l’egocentrismo esasperato.
Non si diventa così impopolari e così odiati in così poco tempo per questi motivi, le storie delle leadership sono piene di leader vincenti egocentrici e presuntuosi.
La distruzione dell’immagine positiva di Matteo Renzi, che sembrava vincente dopo la vittoria delle primarie e soprattutto dopo il 40% delle Europee, è stata pazientemente fabbricata da una macchina potente al servizio di chi si è sentito minacciato in vari modi dall’affermazione di una leadership che rompeva il politicamente corretto e gli schemi attraverso i quali la politica italiana ma anche l’economia e i media hanno letto e soprattutto interpretato la realtà.
Non può essere altro che questo. Non può giustificarsi l’eclisse di popolarità di Matteo Renzi con questo o quello errore commesso in questa o quella riforma soprattutto quando i più autorevoli commentatori internazionali (lontani dalle passioni della lotta politica quotidiana italiana) descrivono gli ultimi anni come anni di buon governo e di tante buone leggi.
Cosa è allora? E, perché, soprattutto? Non basta neanche incolpare il populismo grillino che ha portato l’insulto e la tecnica della distruzione dell’avversario in politica, non basta perché della ossessione contro Matteo Renzi si sono fatti interpreti pezzi importanti delle elites riflessive italiche che semmai hanno usato l’amplificazione delle campagne vaffamediatiche dei grillini per colpire il nuovo leader del PD e la classe dirigente giovane che tentava di farsi strada.
Si è mosso contro Matteo Renzi un mondo molto variegato dai membri privilegiati dell’ancien regime al vaffanculismo grillofascio,da quel mondo omofobo e razzista perfettamente rappresentato dal nuovo ministro della Famiglia Lorenzo Fontana e dal pistolero di Macerata a tutti coloro che si sono sentiti colpiti dalle riforme portate avanti dal governo del PD (dai magistrati a cui si sono ridotte le ferie ai professori che non vogliono essere oggettivamente valutati, dai dirigenti dello Stato cui è stato messo un tetto agli stipendi ai caporali colpiti da una legge efficacissima, dai furbetti del cartellino a quelli che non pagavano il canone Rai, etc. etc. etc., la lista sarebbe lunghissima). E non ho dubbi che oltre alla ribellione dei poteri deboli e diffusi anche quelli che hanno davvero il potere di comando della economia e della finanza si sono preoccupati che il giovane fiorentinoridesse il ruolo che gli spetta alla Politica, quella che Aristotele chiamava, se non ricordo male, la regina delle arti, potenziando lo Stato democratico unico modo per tenere a bada gli spiriti selvaggi di un capitalismo che negli ultimi 30 anni grazie alla globalizzazione solo economica e finanziaria ma non politica, ha mandato a monte (senza costruire una più avanzata alternativa al passo con le mutate situazioni sociale) quel compromesso welfaristico che aveva garantito il benessere del secondo dopo guerra.
Ed una mano importante a questa azione di demolizione mediatica l’hanno data i perdenti della “ditta” che non hanno mai accettato l’esito delle primarie ed hanno sempre trattato il ragazzo fiorentino come un estraneo barbaro. Quella sinistra che veniva ospitata ogni giorno, in maniera ossessiva e sovradimensionata rispetto al loro peso elettorale effettivo, in tutti i talk show per parlare male di Renzi e del PD, utili idioti che hanno lavorato per il re di Prussia.
Una sinistra che apparentemente parlava di merito e di valori (jobs act, buona scuola, disuguaglianza, povertà) ma che era animata solo da uno spirito di rivalsa nei confronti di chi l’aveva estromessa dai centri di potere dopo decenni in cui in quei centri di potere (stesse al governo o stesse all’opposizione) aveva fatto il bello e cattivo tempo.
Questo fronte ampio della restaurazione si è trovato compatto per la prima volta ai tempi del referendum costituzionale quando per il NO si è schierato un arco di forze politiche e sociali amplissimo dalla CGIL a Casa Pound passando per tutto lo spettro delle forze politiche italiche vecchie e nuove.
La campagna sulla deriva autoritaria è stata un capolavoro mediatico che ha dimostrato una inesauribile capacità di ribaltamento della verità. Una Riforma che non toccava la forma dello Stato, che manteneva integro il Parlamentarismo costituzionale efficientando nello stesso tempo i percorsi decisionali e rafforzando così il ruolo della democrazia (quella democrazia che come dicono in tanti è in pericolo quando non riesce a decidere) è stata fatta passare per un attentato alle libertà costituzionali.
È stata una campagna condotta per evitare quello che per loro era il pericolo maggiore. Il pericolo mortale cioè che una nuova classe dirigente si rafforzasse grazie alla vittoria del SI, con Matteo Renzi che consolidava la sua leadership potendo così continuare senza più nessun ostacolo quell’azione di profondo rinnovamento appena iniziato. Provate ad immaginare come sarebbe cambiata la storia del nostro paese se il SI avesse vinto (ma il popolo, come spesso gli accade, ha scelto Barabba)!!!
Ma il capolavoro mediatico costruito per combattere la Riforma costituzionale è solo un aspetto (e non certo il più incisivo) di unaazione a largo raggio avviata per distruggere la credibilità di Renzi ed era necessario dopo il referendum completare l’opera ed impedire che quel 40% di SI diventasse un fronte politico compatto.
Mentre la sinistra interna ed esterna al PD continuava nel suo bombardamento del quartier generale (con l’effetto di far perdere di credibilità agli occhi di tanti elettori che assistevano esterrefatti a liti da pollaio) veniva costruito un altro capolavoro mediatico che ha portato la grande maggioranza degli elettori ad identificare in Matteo Renzi e nella sua giovane classe dirigente i complici di un sistema bancario che aveva provocato la crisi delle 8 banche.
Cioè il contrario, radicalmente il contrario, di quello che era effettivamente accaduto.
Ed in un periodo in cui il sistema bancario nel suo complesso non gode del massimo di popolarità essere stigmatizzato come l’amico dei banchieri è stato un colpo mortale alla immagine di Matteo Renzi.
La “character assassination” di Maria Elena Boschi, una delle più importanti collaboratrici di Renzi, la giovane donna che era riuscita a far votare al Parlamento una Riforma costituzionale che ridimensionava privilegi e costi, è un esempio di scuola di come questo capolavoro mediatico è stato costruito.
Il frame “Renzi amico dei banchieri che hanno speculato sulla vita delle persone” e quello di “Boschi Madonna Etruria” è penetrato ovunque ed inutilmente il PD provava a spiegare che la crisi delle 8 banche era maturata quando Renzi era ancora sindaco a Firenze e la Boschi una giovanissima avvocatessa del foro fiorentino, inutilmenteprovava a spiegare che l’azione di governo ha salvato non i banchieri (che invece sono stati estromessi da tutti i consigli di amministrazione compreso l’incolpevole, come ha stabilito la magistratura, Pierluigi Boschi) ma correntisti e risparmiatori compresi gli obbligazionisti ingannati da troppo solerti funzionari bancari, inutilmente provava a spiegare che con la riforma delle popolari sono state eliminate all’origine le cause per cui quelle crisi sono potute scoppiare e che forse c’è stato un intreccio malmostoso tra chi doveva vigilare e le banche sottoposte a vigilanza (nel caso delle banche venete tutto questo è evidentissimo).
Ed il capolavoro mediatico è stato completato trasformando la Commissione di indagine sul sistema bancario in un palcoscenico dove rafforzare, contro ogni evidenza, questi frame (surclassando il PD che per ingenuità dello stesso Renzi credeva invece di trasformare quel palcoscenico in uno strumento di accusa verso chi effettivamente aveva lucrato).
Questa sulle banche è stata la campagna mediatica più invasiva e più penetrante ma contemporaneamente sono stati costruiti e fatti girare ampiamenti tra gli oltre 30 milioni di cittadini che usano i social straordinarie fake news molto efficaci.
Pensiamo alla notizia diffusa ovunque (con foto) della Lamborghini che aveva regalato una sua automobile a Renzi che ci era andato in vacanza ad Ibiza.
Pensiamo al battage sul famoso aereo di Stato di Renzi che Renzi non ha mai usato e che invece in questi giorni il neopremier anticasta Conte ha usato per andare in Canada.
Ma pensiamo soprattutto a quella campagna, molto più insidiosa e molto ben costruita, fatta sulla applicazione della Direttiva europea riguardante l’uso dei sacchetti biodegradabili nei supermercati. Per settimane e settimane i social sono stati invasi dacentinaia di migliaia di post in cui si dava per certo che una amica di Renzi aveva il monopolio nella produzione di questi sacchetti e che la norma era stata approvata per favorire questa signora che era appunto una amica del premier. Tutto falso. Ma tutto virale e quindi reso verosimile per milioni di persone.
Per parecchio tempo prima delle elezioni politiche è stato uno stillicidio di fake aventi come oggetto la demolizione della moralità di Matteo Renzi, direttamente o attraverso persone a lui legate.
E lo hanno fatto utilizzando tutta l’odierna potentissima strumentazione social molto più invasiva ed individualizzante della già invasiva potenza televisiva. Qualcuno adombra addirittura che, allo scopo ultimo di far vincere in tutta Europa i populisti per indebolirne la forza politica ed economica, i russi abbiano concentrato in grandi capannoni migliaia di persone con il compito di pattugliare il web ed introdursi sotto mentite spoglie nella vita di tutti noi raccontando frottole che diventavano verità per la maggioranza della popolazione che non ha né strumenti né il tempo per difendersi. Uno scenario spaventoso se fosse vero e che rende veritiera la frase di Mark Twain il quale parlando delle menzogne diceva che “una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe”.
Io non so, non ne ho le prove che tutto questo sia vero. So però che è molto verosimile. E so che se una potenza straniera o una potenza economica oggi vuole inondare la mediasfera con notizie tendenziose o fasulle, le tecnologie informatiche e la rete dei social gli facilitano enormemente il compito.
In passato la controinformazione a fini destabilizzanti contro un Partito, un movimento, uno Stato era già stata usata ma ci volevano risorse sul posto, bisognava scalare giornali (come fu per il Corriere all’epoca della P2) o televisioni (come è stato a cavallo tra prima e seconda repubblica per Berlusconi). Oggi quella azione destabilizzante si può fare a distanza da Mosca, Washington o da qualsiasi periferia dell’impero, senza rischio alcuno.
La macchina del fango di cui abbiamo parlato finora era poi anche alimentata da quello che Piero Sansonetti, direttore del Dubbio, chiama il circo mediatico giudiziario, una specie di corto circuito tra alcuni uffici giudiziari e media.
In questi anni sono decine e decine le inchieste giudiziarie che dalla scrivania della procura passano nelle prime pagine dei giornali. Una regia sapiente che centellina le informazioni dando risalto alle aperture delle inchieste ma nascondendo quando quasi sempre si risolvono con l’archiviazione o per l’assoluzione per inesistenza di ogni presupposto.
È stato così per il parlamentare lucano Salvatore Margiotta, per la clamorosa inchiesta Tempa rossa finita in un nulla di fatto, per il Presidente del PD campano Stefano Graziano, per il governatore De Luca, per il Sindaco di Ischia Giosi Ferrandino, per il Sindaco di Mantova Palazzi e tantissimi altri casi.
La notizia delle indagini su di loro ha fatto più volte il giro del mondo, la verità della loro assoluzione si sta ancora allacciando le scarpe.
Forcaioli e giustizialisti di ogni risma scrivono centinaia di migliaia di post sui social, il PD viene descritto come una associazione a delinquere, il Fatto quotidiano (e non solo) batte la grancassa (e i padri nobili del PD tacciono).
Il frame dei renziani corrotti entra in tutte le case, nei piccoli paesi, nei bar e nei mercati non si parla d’altro ed il prestigio di Renzi viene pian piano buttato a terra. Ogni giorno, ogni ora, incessantemente.
E che questo sia l’obiettivo viene fuori clamorosamente quando i bravi magistrati della Procura di Roma scoprono che sul caso Consip c’è un capitano dei carabinieri che taroccava le intercettazioni per mettere in mezzo il padre di Renzi. Una roba che in altre epoche avrebbe provocato uno sciopero generale e la scesa in piazza di grandi masse a difesa della democrazia.
In questo caso scende solo il silenzio. I grandi organi di informazioni relegano la notizia tra le non rilevanti. E tacciono, lo ripeto, i padri nobili del PD, quelli sempre con il ditino alzato ad indicare gli errori di Matteo Renzi ed a piangere retoricamente sul presunto abbandono dei valori della sinistra.
Nessuna solidarietà viene al giovanotto fiorentino dai suoi stessi compagni di Partito che sono in minoranza, ed è evidente che le finte prove contro la famiglia di Renzi facevano comodo pure a loro.
Ma la campagna di delegittimazione quotidiana di Matteo Renzi e quindi del PD è fatta anche di un altro tassello oltre che della furibonda campagna condotta attraverso ingegnose ed efficaci fake news e dell’attivazione del circo mediatico giudiziario.
Parliamo della azione falsificante compiuta sugli atti di governo tendente a dimostrare non solo l’inefficacia di una politica ma addirittura la complicità di questa politica con coloro che detengono effettivamente il potere economico e finanziario.
Così è accaduto con il Jobs act di cui non viene messo in risalto quello che è la vera novità della riforma del mercato del lavoro e cioè la nuova e moderna rete di protezione sociale che ingloba figure fin ad ora mai interessate a nessuna protezione ma si amplifica la battaglia ideologica di un piccolo nucleo di sinistra e si taroccano o si nascondono i dati sull’aumento della occupazione parlando di un aumento dei rapporti di lavoro precario quando invece, come spiego QUI in maniera più dettagliata è vero il contrario.
Si alimenta la fake news della diminuzione delle ore lavorate per spiegare, e quindi sminuire, l’inversione di tendenza del tasso di disoccupazione, fake news smentita dai dati ufficiali che non solo segnalano l’aumento delle ore lavorate complessive ma anche l’aumento delle ore lavorate per dipendente.
O come è accaduto con la riforma della scuola dove vengono messi in risalto solo i problemi (fisiologici quando si mette mano ad un sistema di nomina dei professori incancrenito da decenni) e si tace sul fatto che il governo Renzi ha fatto uno sforzo enorme in termini finanziari sul comparto scuola dopo i tagli selvaggi degli anni precedenti ad opera di Gelmini e Monti.
Per non parlare della lotta alla povertà che è stato un chiodo fisso in questi anni e che ha visto oltre al Reddito di inclusione l’approvazione di tante misure indirizzate ad incidere sugli indici di povertà presenti nel nostro paese (cito soltanto, l’elenco potrebbe essere lungo, l’eliminazione delle tasse universitarie per i più poveri e l’abbattimento progressivo per gli altri oppure la cosiddetta quattordicesima per i pensionati al minimo). Uno sforzo che ha visto aumentare gli investimenti sul sociale sia rispetto ai governi Berlusconi ma anche ai governi Prodi e che nessuno però raccontava. (trovate QUI una analisi più dettagliata di questo tema)
Si poteva e doveva fare di più? Non c’è alcun dubbio. Ma dal dovere e potere fare di più al descrivere Renzi come colui che ha ampliato la precarietà del lavoro, ha distrutto la scuola pubblica e fatto aumentare la povertà, ce ne corre.
E ritorniamo da dove eravamo partiti.
Dalla domanda su come e perché è stato possibile che quel ragazzo di 39 anni che aveva fatto sognare il centrosinistra con la straordinaria vittoria alle europee quando è arrivato alla soglia dei 43 anni è precipitato bruscamente nel consenso e dipinto da tutti, dal professore universitario al barista sotto casa, come il male assoluto.
Renzi ha fatto sicuramente degli errori dei quali sicuramente il più grave per un politico è quello di non aver capito la disposizione delle forze in campo contro di lui (errore evidentissimo al referendum ma che è continuato) e molte riforme sicuramente andavano fatte meglio.
Ma non per questo di solito si cade così vertiginosamente nella considerazione popolare. Si possono perdere le elezioni ma non è questa la spiegazione del crollo di considerazione e della vera e propria aurea negativa che circonda Matteo Renzi.
La spiegazione sta in tutto quello che ho provato a raccontare in questo articolo, sta nella paura che, all’establishment debole e forte, ha fatto questo giovanotto di Rignano sull’Arno, paura che non fanno neanche i 5 stelle la cui impreparazione fa dormire sonni tranquilli ai vecchi volponi della economia e della politica e della burocrazia, volponi che nelle situazioni di caos si ingrassano mentre soffrono se qualcuno, come hanno avuto l’ambizione di fare i governi del PD, quel caos lo vuole governare fissando dei limiti.
Tanto per cominciare, il Limbo non esiste più, cancellato : lo afferma Papa Ratzinger che, il 21 Aprile 2007, approva i lavori della Commissione Teologica Internazionale concludendo:
“Serie basi teologiche e liturgiche fanno sperare che i bambini morti senza battesimo siano salvi e godano della visione beatifica”.
E questa giravolta teologica avviene dopo che, per secoli, il Limbo era rimasto certezza granitica: un fior di teologo, della fama di S.Agostino , ce lo confermava in uno scritto del 412 in cui così si esprimeva:
“I bambini che muoiono senza battesimo si troveranno nella condanna: chi, infatti, tra i Cristiani può sopportare l’idea che si conceda a qualcuno la possibilità della salvezza eterna senza rinascere nel Cristo? Mai è stata detta, mai si dice, mai si dirà una tale sciocchezza nella Chiesa di Cristo”.
Certezza confermata, due secoli dopo, da Papa Gregorio Magno, che così dettava:
“Dio condanna anche coloro le cui anime si sono macchiate anche solo del peccato originale: perfino i bambini che non hanno mai peccato di loro volontà dovranno andare incontro ai tormenti eterni”.
Condanna ribadita dal massimo teologo della Chiesa, San Tommaso, che nel “Supplemento alla Summa Theologica” così affermava:
“Per il peccato originale è previsto il Limbo dei bambini morti senza battesimo”, e rincarava la dose papa Eugenio IV che, nel 1439, nella
bolla “Laetentur caeli”, così stabiliva:
“Le anime di coloro che muoiono con il solo peccato originale scendono immediatamente all’Inferno per essere punite con pene diverse”.
Tale sorte fu, infine, ufficialmente confermata dal Concilio di Trento nel Giugno 1546 ed, ai giorni nostri, ribadita da papa Pio X, che, nel 1912, si domandava e si rispondeva:
“I bambini morti senza battesimo dove vanno?
Vanno al Limbo perché, avendo il solo peccato originale, non meritano né il Paradiso, né l’Inferno, né il Purgatorio”.
Ma, sparito il Limbo, voi penserete: rimangono comunque Paradiso, Inferno e Purgatorio.
Errore, o meglio, contrordine, cari fedeli: che questo mondo ultraterreno sia solo un immaginario destino, inventato dai preti, per fare cassa ( pensate solo a quanto denaro ha fruttato il commercio delle indulgenze per le anime del Purgatorio) ce lo confermano ora addirittura due Papi del calibro di Karol Wojtyla e di Ratzinger.
Il primo , nel corso di un ciclo di catechesi pubbliche, descriveva Paradiso, Inferno e Purgatorio come:
“Semplici stati dell’anima legati o meno alla comunione con Dio e non vanno considerati come luoghi fisici secondo le nostre concezioni”.
Otto anni dopo, il 12 Gennaio 2011, in una udienza pubblica , a sua volta il Papa tedesco ribadiva lo stesso concetto:
“Il Purgatorio non è un luogo fisico dove, dopo la morte, poter purificare l’anima tra fiamme fuoco e tormenti.
È, invece, uno spazio interiore, senza tempo, e senza dimensioni, un momento di ricerca e di intima penitenza da cui partire, per incontrare la misericordia di Dio”.
E pensare che i necrologi riportano ancora espressioni del tipo:
“Ha raggiunto il Cielo”: “È tornato alla casa del Signore”; “È volato tra gli angeli al cospetto di Dio”: bisognerà pure che qualcuno informi quei poveri giornalisti.
Ed il divino poeta, Dante, allora?
Tutta quella immensa fatica per descrivere nei dettagli le pene appropriate, secondo la legge del “contrappasso”, per punire le varie colpe ed ecco che si ritrova con un pugno di mosche: chi glielo dice?
E la nostra fatica di studenti per stare dietro alle sue cantiche?
E il povero Benigni che l’Inferno se l’è imparato a memoria e lo sciorina dettagliandolo minutamente nel corso dei suoi spettacoli?
Ve la dico così:
ricordo ancora, dopo tanti anni, il sospiro di sollievo che mi scappava tutte le volte che , interrogato dal professore , questi terminava l’impari incontro con la frase risolutiva:
la sufficienza te la dò ma stiracchiata, appena appena meritata: giusto per non umiliarti con un cinque, ti dò sei, meno, meno,” il che per me era , ovviamente, il massimo per ottenere tranquillità e riuscire a tirare avanti.
Allo stesso modo immagino il giorno del Giudizio universale.
Ci ritroviamo tutti, miliardi e miliardi di persone resuscitate e con i corpi rifatti nuovi di pacca, nella valle di Josafath dove, stando alla Bibbia, aspettiamo che il Padreterno compaia sulle nuvole con un codazzo di agnoloni, squlli di tromba tuoni e fulmini (speriamo non piova) e ci giudichi, uno per uno.
Il pigia pigia fa sudare, in fondo questa valle di pochi ettari fatica a contenere questi miliardi di individui.
Ed ecco che il Dio annuncia:
“Siete un branco di coglioni, banditi, assassini, ladri e ladre, puttane e puttanieri, corrotti e corruttori … non meritate proprio la sufficienza. Ma, nella mia infinita bontà, non vi boccerò con un quattro o un cinque in condotta: vi promuovo tutti con il minimo appena, appena risicato: a tutti voi un sei, meno, meno”.
In un gruppo di amici molti controllano i propri smartphone, mentre sono insieme. Tutti in metro stanno con gli occhi fissi sugli schermi dei loro dispositivi tecnologici. Una coppia che va a dormire insieme, va a letto con i loro iPhones tra le mani. Le persone tengono alti in aria i loro smartphones, per scattare foto di un concerto. Potrei proseguire ancora. La tecnologia, in particolare, gli smartphone, stanno rovinando la societa odierna, rendendoci piu disconnessi dagli altri, permettendoci di interagire con i nostri dispositivi tecnologici invece di farci interagire tra di noi
Alle persone piace criticare la societa odierna. Non necessariamente la societa odierna a noi relativa, ma la societa contemporanea nel tempo in cui viviamo. Facile per loro immaginare il passato come un’era perfetta e migliore rispetto al periodo in cui viviamo, ma questo porta ad una visione distorta della realta, come si spiega nell’articolo Romanticizing the Past Makes Us Feel Bad about the Present. Il passato è sempre migliore. E nell’era dell’informazione e della tecnologia, in cui lo smartphone è cosi diffuso, è troppo ovvio incolpare la tecnologia per alcuni problemi nella societa stessa. Certamente, è saggio e ragionevole, fermarsi e riflettere sull’uso che facciamo della tecnologia e sulle critiche dei cattivi comportamenti che ne derivano. Ma credo che giudicare la tecnologia (e ancora, maggiormente gli smartphones) responsabile della rovina dell’interazione sociale, ed in generale di ogni tipo di esperienza, sia sbagliato e fuorviante. Alcuni possono pensare che tutto questo sia presuntuoso, ma non mi importa.
Se hai usato internet negli ultimi anni (e lo hai fatto), hai probabilmente visto una o piu immagini sulla tua newsfeed Facebook, o sulla dashboard di Tumblr o in altri posti, con un senso di superiorità, dove vengono rappresentate vignette o immagini di come le persone sono schiave della tecnologia oggi, mostrate sempre con i loro dispositivi tecnologici in pubblico. Sto parlando di illustrazioni come questa. O vignette come questa. Oppure di video comequesto. O ancora di articoli come questo o questo. Oppure di progetti fotografici come questo. Ancora, potrei proseguire oltre. Il web è pieno di qualsiasi tipo di lavoro relativo a questo problema, probabilmente perche la gente ci tiene molto. Ma credo che la maggior parte di queste illustrazioni abbia la stessa premessa: lo smartphone sta rovinando la nostra vita (almeno in alcuni contesti questo è il messaggio trasmesso).
Illustrazione di Jean Julien. The fun people didn’t go away — they’re here and everywhere
Ogni volta che vedo un contenuto come questo, sento la necessita di esprimere la mia totale disapprovazione, per questo generalmente mi sfogo su Twitter, spesso scrivendo troppo di quello che posso, ed è per questo che ho deciso di scrivere questo articolo. Certamente, questi sono soltanto miei punti di vista (e spero anche di altre persone), come su articoli di altri autori, sui quali commento, quindi si può anche non essere d’accordo con me, ma con gli altri che la pensano diversamente.
La mia premessa principale è che non penso che gli smartphones ci stiano isolando, distruggendo le nostre vite sociali o rovinando le nostre interazioni. Io vedo gli smartphones come strumenti per la comunicazione. Strumenti che ci danno la possibilità di interagire in modi che prima non erano possibili, collegandoci con le persone in giro per il mondo, tramite Twitter, messaggi istantanei o altri servizi. Qualcuno può affermare che se vuoi interagire con le persone, devi interagire con le persone che sono vicino a te, e questo, è probabilmente vero in alcune situazioni. Ma, in altre occasioni, non riesco a capire perche dobbiamo essere costretti ad interagire con persone fisicamente vicine a noi, invece che interagire con persone con cui vogliamoveramente comunicare in quel momento.
È davvero sbagliato voler comunicare con un amico lontano usando lo smartphone, invece di interagire con una persona che non mi interessa, che si trova però vicino a me? Oppure leggere i Tweet delle persone che segui su Twitter invece di parlare con un amico in metro? Forse si, è sbagliato, le persone dovrebbero sempre preferire l’interazione sociale a quella digitale. Non sono d’accordo. A parte in occasioni ovvie (meeting di lavoro, conversazione tra persone, ecc.). Credo che le persone debbano poter interagire con chi vogliono, senza essere giudicati da altri perche si stia usando uno smartphone o meno.
Tutto si riduce lasciando alle persone la possibilità di interagire liberamente utilizzando lo strumento con il quale si trovano meglio in quel momento. Probabilmente un tuo amico, non sta parlando con te perche ha avuto una pessima giornata e preferisce rilassarsi curiosando su Instagram o ascoltare un po di musica. Forse il tuo amico ha tirato il telefono fuori dalla tasca perche gli è appena arrivato un messaggio al quale deve rispondere. Oppure perche si trova in un momento non molto confortevole e prende lo smartphone per evitare quel momento di goffagine, di ansia sociale e tu dovresti rispettarlo. E forse sì, forse alcune persone usano i loro smartphones quando non dovrebbero farlo, e sono dei cretini (o hanno semplicemente fatto un errore, non rendendosi conto che prendere lo smartphone abbia fatto irritare qualcuno), ma credo che sia ingiusto convenire, che tutti, o quasi tutti quelli che usano lo smartphone in pubblico facciano questi errori.
Photo by John Blanding tweeted by Wayne Dahlberg. It’s trying to convey the idea that this woman is enjoying the experience more than the other people taking photos or recording. I’m not sure those people are really enjoying it less because of their smartphones
Parte di coloro che fanno critiche su questo problema, colpevolizzano anche i social media in quanto sono integrati al nostro uso standard degli smartphones. Per esempio, vedo un sacco di gente che si lamenta di altri che fanno foto al cibo al ristorante e le caricano su Instagram o su altri social. Non sono completamente d’accordo con la loro critica. È forse sbagliato creare una memoria permanente di un’esperienza che altrimenti sarebbe temporanea, catturando in una foto il lavoro di persone dietro la cucina che hanno fatto un grande sforzo per creare una composizione tanto buona ma anche tanto bella da vedere? Secondo me questo lamentarsi, è il risultato dell’incomprensione di come i moderni social media funzionano.
Credo che l’utente zimzet su Tumblr spiega questo concetto in modo accurato nei suoi commenti sulle illustrazioni di Jean Jullien che ho usato qui. Sull’argomento relativo al fatto di fotografare il cibo, Zimzet si è espresso in tal senso:
Sono felice di vedere i miei amici che fanno foto al loro cibo. A me piace fare foto al cibo. Perchè c’è uno chef in cucina che lavora duro per impiattare cose bellissime and in alcune situazioni, le persone lo mangiano immediatamente e rovinano quella bell’immagine. Noi facciamo le foto per preservare quell’immagine e chi cazzo lo sa, se fossi lo chef andrei a cercare su Instagram, sperando di vedere i miei piatti li. Stiamo semplicemente elogiando il duro lavoro di qualcun altro, lavoro che sarebbe generalmente solo temporaneo.
E io son d’accordo in questo, zimzet conclude:
La tecnologia non è cosi male. Tu sei solo arrabbiato con te stesso, a causa della tua mancanza di autocontrollo. Tu odi il fatto che le pesone si connettano grazie alla tecnologia. E forse, non ti piace il fatto che le persone si vogliano bene a vicenda, godendosi la vita e sentendosi felici. Questo è un tuo problema, non della tecnologia.
Anche il social media in se non è cosi malvagio. Non ci rende socialmente isolati gli uni dagli altri. Semplicemente il contrario, esso espande le nostre reti sociali come dimostrato dallo studio di Pew Research Center dove conclude:
Confrontando coloro che non usano internet con coloro che ne fanno uso, ed usano anche servizi di social media come Facebook, MySpace o Linkedin, hanno delle reti sociali che sono 20% piu diversificate.
Il report è stato fatto nel 2009, quando i social media non erano diffusi come lo sono ora, ma credo che siano corretti anche oggi. Vorrei inoltre evidenziare quanto detto in questo paragrafo:
Nuove tecnologie per l’informazione e la comunicazione forniscono nuove impostazioni e un insieme di mezzi di comunicazione che contribuiscono a diversificare le reti sociali delle persone
I social media e gli smartphones in pratica, contribuiscono soltanto a rendere la nostra esperienza sociale più ricca, collegandoci con le altre persone in modi nuovi. Sono sicuro che molti di voi avranno incontrato un sacco di gente interessante. Ne sono sicuro. Grazie ai social media sono stato in grado di conoscere persone che adesso sono diventati dei miei cari amici. E quando sono in giro, mi piace andare su Twitter e vedere come stanno e cosa stanno facendo, e se ho qualcosa da dire magari che gli potrebbe interessare. Diavolo, ho anche incontrato la mia ragazza su Twitter alcuni anni fa, e sono sicuro che la mia non è un’esperienza isolata, come lo studio precedente dimostra.
Immagine che mostra ognugno leggere il giornale invece di parlare con gli altri, di alcuni decenni fa
Un altro argomento di cui si sente spesso parlare è quello che ho precedentemente menzionato. Le persone che usano i loro smartphones in metropolitana, in bus o sul treno. Questo è mostrato dall’illustrazione all’inizio di questo articolo, o nella vignetta che ho indicato sopra. Questa è quella che ho messo alla fine. Cos’altro potrebbero fare le persone? Cosa farebbero se gli smartphones non esistessero? Parlerebbero tra di loro? Non prendiamoci in giro. Alle persone, in generale, non piace interagire con estranei in questi contesti. Loro non lo facevano neanche prima della venuta degli smartphones; usavano soltanto un altro oggetto, come un giornale ad esempio. In risposta alla vignetta di questo paragrafo, l’utente Tumblr bogleech ha commentato:
OH guarda quelle ignoranti, patetiche persone di diverse eta, sesso ed etnia, tutti stanno usando quel cavolo di internet sui propri telefoni mentre sono in metropolitana! Santo cielo lo stanno facendo tutti ! Perfino il ragazzo col turbante lo sta usando, proveniente da chissà che diavolo di paese !
Perche stanno messaggiando con amici o familiari usando i loro smartphones, quando potrebbero interagire con dei completi estranei in un dannato vagone della metropolitana ?
Colui che ha scritto questo commento tiene chiaramente molto a questo concetto.Bene, nonostante la sua brutalità, credo che debbo convenire con la sua idea che è proprio quello che sto dicendo qui.
Poi continua:
La tecnologia digitale soltanto nell’ultimo decennio ha connesso ed educato molte piu menti umane di quanto sia avvenuto nella storia del nostro pianeta
Questo è persino un miracolo, il fatto che ci permette di fare nuovi amici, condividere le nostre idee, imparare cose nuove, guarire ferite emotive attraverso l’interazione sociale, trovare delle vie d’uscita da alcune situazioni, trovare nuovi posti in cui vivere, trovare un nuovo lavoro, raggiungere i tuoi obiettivi personali, ed in generale raggiungere la felicità con un dannato bottone
Non devi per forza credere a quanto egli dice. Ci sono dei report e degli studi che provano tutto ciò, come questo o questo.
Illustration by Jean Jullien. Is it so bad to have the ability to not be alone using our phones?
In conclusione, penso che si debba smettere di pensare che la tecnologia stia rovinando tutto, rendendoci schiavi di essa, irragionevolmente utilizzando i nostri smartphones tutto il tempo. Sta rendendo le nostre vite migliori, connettendoci alle persone a cui teniamo di piu, indipendentemente dalla distanza alla quale esse si trovano rispetto a noi, collegandoci potenzialmente a tutti i tipi di persone che non avremmo potuto conoscere senza di essa. Quindi smettila di sentirti superiore alle altre persone che usano i loro smartphones, smettila di dire che la nostra vita sarebbe migliore senza la tecnologia, smettila di incolpare la tecnologia per cose dovute a comportamenti umani naturali. Se vedi un immagine come questa che ho allegato qui, e nella quale quello che gli altri cercano di mostrare è come noi “stiamo lasciando alla tecnologia la facolta di distruggere le nostre interazioni sociali e le nostre esperienze”, fermati e rifletti sul perchè le persone usano i loro dispositivi digitali. Inoltre, basta santificare il passato, pensando che la vita fosse migliore prima di tutta questa dilagante tecnologia, vista come una sorta di “neo-luddismo”. La tecnologia è positiva. Ci permette di collegarci in modo fantastico. Non sta sostituendo la nostra interazione. La sta aumentando, Abbracciala.
(Tutti i diritti delle immagini ed illustrazioni utilizzate in questo articolo sono dei corrispettivi autori e proprietari indicati sotto ogni immagine).
Di tutte le reazioni che ho letto — l’ho già scritto altrove — quella che mi ha colpito di più è stato lo sdegnato e incredibilmente diffuso stupore perché Vendola non ha adottato un bambino da un orfanotrofio: quando la legge italiana, come noto, glielo impedisce proprio perché omosessuale (l’adozione in Italia è consentita solo alle coppie etero sposate).
Allora ci si può chiedere, volendo, che cosa avrebbe fatto l’ex governatore nel caso in cui la legge glielo avesse consentito: avrebbe scelto l’adozione o comunque la maternità surrogata?
E qui, appunto, si apre la vera questione.
Perché forse anche Vendola e il suo compagno, come milioni e milioni di persone, avrebbero comunque desiderato anche un pezzo di genitorialità biologica: considerata dalla maggior parte delle persone più autentica, profonda e completa di quella adottiva.
Eccola, quindi, la grande battaglia culturale da fare: che ha anche risvolti politici e legislativi, s’intende, ma è prima di tutto di mentalità, di senso comune.
Come padre di un ragazzino adottato — e biologicamente generato da una coppia a me del tutto ignota e che pure è ogni giorno nei miei pensieri — la mentalità prevalente e il senso comune li ho visti nelle domande che mi faceva mio figlio alle elementari, tornando da scuola: perché mi dicono che tu non sei il mio vero padre? Perché mi chiedono se mi mancano i miei veri genitori?
Questa cosa del vero — il linguaggio tradisce sempre il senso comune — è lo spettro contro cui ho lottato per 15 anni: e ho spesso fulminato con lo sguardo o fatto a pezzi a parole anche persone che mi volevano bene, quando lo riproponevano, lasciando affiorare anche loro questo senso comune così antico e stronzo.
Che è figlio di una subcultura, nulla di più: una subcultura duale e avversativa, secondo la quale l’identità filiale dei bambini è costituita esclusivamente da un contesto fatto da due persone, una madre e un padre, i quali sono coloro che l’hanno biologicamente generato.
Una costruzione culturale, appunto, e non universale: andate ad esempio nelle famiglie patriarcali o matriarcali di mezzo pianeta e scoprirete quanti bambini hanno più figure sia materne sia paterne, e per loro “mamma” e “papà” spesso sono poco più di un prefisso che mettono davanti ai nomi propri di più persone che, nel loro ambito familiare, interpretano queste figure. Non ci sono genitori veri e genitori falsi, ci sono solo persone adulte (una, due più) che crescendo un figlio contribuiscono alla costruzione dell’identità del bambino: più o meno riuscita a seconda di come si sono comportate e relazionate con il bambino queste figure adulte.
Allo stesso modo, si sa che il figlio adottato costruisce la sua identità sia nel rapporto con i genitori che lo crescono sia in quello (spesso solo immaginario, ma non per questo meno importante) con i genitori biologici, con le sue origini biologiche. Che quindi non vanno negate (altro errore, speculare e contrario rispetto a chi parla di ‘genitori veri’) ma accostate e integrate alle figure dei genitori che lo crescono.
Tutto questo non è tuttavia moneta diffusa, almeno non ancora. Non è senso comune. L’adozione è quasi sempre vista come una seconda scelta rispetto alla genitorialità biologica. Un rimedio. Un surrogato, a proposito di parole in questi giorni molto usate.
La grande battaglia culturale è affinché sia sempre meno così.
La grande battaglia culturale è affinché la genitorialità adottiva non sia più vista dalla maggior parte delle persone come di serie B rispetto a quella biologica.
Affinché sia vista come una scelta bella in sé, non come rimedio. Bella non solo e non tanto per motivi etici (date le decine di migliaia di bambini che ogni giorno vengono al mondo per sbaglio, per violenza, in condizioni ambientali spaventose, in contesti di disperazione, di fame, di guerre, di sovrappopolazione) ma proprio dal punto di vista egoistico, dal punto di vista di quello straordinario appagamento che sta nell’essere genitori adottivi.
Proprio così: è bellissimo crescere un bambino che hanno dato proprio a te, che il destino ti ha assegnato affinché tu gli possa dargli il meglio, che la vita ti ha portato in casa affinché tu possa dimostrare a lui, al mondo, all’universo che puoi regalargli infinità d’amore, di chance, di felicità.
È un’avventura di una bellezza talmente unica e straordinaria che chi ha avuto la fortuna di percorrerla dovrebbe urlarla al mondo perché lo capisse, altro che genitorialità di serie B!
Prendete ad esempio la spinosa questione della maternità surrogata, venuta alla ribalta prima con la legge Cirinnà e oggi per via di Vendola: lo sapete vero che l’80 per cento delle maternità surrogate sono richieste da coppie eterosessuali? E quante di queste coppie, se fosse culturalmente sdoganata la bellezza assoluta e in sé di una genitorialità adottiva, insisterebbero su una strada che in molti contesti rischia di avere tratti eticamente molto dubbi, come nel caso di donne disperate dei paesi più poveri?
Intendiamoci, non sto dando lezioncine: nessuno è immune dalla subcultura che vuole la genitorialità adottiva come una seconda scelta. Neppure io, che 15 anni fa ho iniziato il percorso di adozione solo dopo aver visto il mio spermiogramma. È stato dopo, che ho capito quanto è meravigliosamente ricca l’esperienza di un genitore a cui un bambino è arrivato in casa dalla luna.
Per questo quando oggi incontro dei ragazzi che progettano una famiglia mi viene spesso da dire: se volete dei figli, fate insieme le due cose. L’amore e il modulo in tribunale, intendo. Fatele entrambe e come arriva, arriva.
Non c’è gerarchia tra i due modi di essere papà e mamma. Non c’è.
Non so, a me tutto questo viene in mente, dalla discussione sulla Cirinnà fino a quella su Vendola. Questa battaglia per trasformare la mentalità, la zucca. Che se fosse vinta risolverebbe forse almeno una parte delle questioni.
E porterebbe anche la politica a occuparsi seriamente della questione.
Perché sì, il problema ha anche risvolti legislativi e sarebbe molto utile se tutta questa polemica servisse a cambiare un po’ le cose.
Ad esempio, modificando le norme che oggi impediscono di adottare un bambino a chiunque non sia una coppia etero regolarmente sposata. È una sciocchezza, è una legge figlia di una visione crudele secondo la quale è meglio lasciar marcire un neonato in un orfanotrofio ucraino piuttosto che dargli un nido d’amore costituito da un single, da una copia etero non sposata, da una coppia gay.
E poi: perché i bambini degli orfanotrofi lontani che creano un graduale rapporto affettivo con qualcuno attraverso i programmi di affido temporaneo durante le vacanze poi non possono scegliere, dopo un po’ di anni, se restare a vivere con la/le persona/e a cui si sono progressivamente legate, e che spesso finiscono per rappresentare il vero focolare familiare nel loro cuore? Pensate che importi a qualcosa, a quei bambini, se la/le persona/e con cui vogliono vivere è sposata o no, è etero o no?
E ancora, a proposito di mercificazione della genitorialità, un Paese decente non dovrebbe venire incontro attraverso robusti sostegni e totali deduzioni fiscali a quelle persone che intraprendono il percorso di un’adozione internazionale, i cui costi arrivano talvolta a superare i 25–30 mila euro, riproponendo quindi quel divide tra ricchi e poveri che oggi costituisce uno degli spunti di polemica più citati per la maternità surrogata?
Ecco, se il caso Vendola servisse ad aprire un vero dibattito culturale e politico su tutti questi temi, sarebbe già un risultato straordinario.
Per il resto, auguri veri di felicità al piccolo Tobia, ai suoi due papà e alla mamma che l’ha partorito.
A venti chilometri da Bristol nella cittadina di Congresbury è accaduto un “fatto senza precedenti” e, strano ma vero, non si tratta di un fattaccio di cronaca nera ma di una buona, buonissima notizia.
Un anno fa il pastore anglicano di Congresbury per festeggiare degnamente gli 800 anni di fondazione della chiesa cittadina lancia una sfida ai suoi 3000 abitanti: compiere in un anno 800 buone azioni, una per ogni anno di vita della città. L’idea è semplice: chi avrà compiuto una buona azione potrà scriverla su un bigliettino, rigorosamente anonimo, e quindi depositarla in una cassetta. Fuori dalla chiesa un tabellone dove il pastore terrà il conto delle buone azioni compiute.
Gli abitanti di Congresbury accolgono con entusiasmo la sfida e, giorno dopo giorno, compiono tante piccole e grandi azioni di solidarietà, generosità, impegno civico, cura del bene comune: aiutare un anziano a fare la spesa, lavare la macchina del vicino, riverniciare le panchine pubbliche,regalare un cappotto ad una persona senza dimora, portare con un furgone cibo e vestiti ai rifugiati che a Calais attendono di raggiungere il Regno Unito.
Oggi i cittadini di Congresbury hanno raggiunto ben 859 buone azioni che hanno cambiato la loro vita e reso davvero memorabile la storia della loro città. Dieci, cento, mille Congresbury!
Ma è mai possibile che il record portato a casa nell’ultimo giorno dell’anno sia quello di popolo più pessimista del pianeta? Possibile che riusciamo a formulare per il nostro futuro previsioni più negative di altri alle prese con situazioni forse più gravi come iracheni, greci e palestinesi? Eppure la 39° Indagine di fine anno 2015 sulla felicità nel mondo diffusa alla mezzanotte del 30 dicembre da WIN/Gallup Internationalhttp://www.wingia.com e condotta interpellando un campione di 66.040 persone di 68 Paesi, assegna proprio all’Italia una scomoda maglia nera. A dirsi felici quest’anno sono stati il 66% degli interpellati (in lieve calo dal 70% del 2014). A dichiararsi infelice è stato il 10% (in aumento del 4% rispetto al 2014), cosa che ha indotto i ricercatori a definire un “indice netto” di felicità globale del 56%.
A guardare con ottimismo alle prospettive economiche del 2016 è il 45% degli interpellati, più 3% sul 2014, più del doppio del 22% dei pessimisti. Ma se l’indice di felicità vede in testa Colombia (85%), Figi e Arabia Saudita (82%) , in coda Iraq (- 12%) Tunisia (7%) e Grecia (9%), è la classifica che combina ottimismo e felicità a penalizzarci: in testa Bangladesh (74%), Cina (70%) e Nigeria (68%). In coda, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti. Ora, pur muovendoci su un terreno scivoloso, visto che sventolare la bandiera dell’ottimismo è stato per anni monopolio dai leader politici, passando agevolmente di mano da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, lo vogliamo dire che questo primato dei musi lunghi è davvero esagerato? Possiamo finalmente provare a domandarci se in un mondo sempre più complicato, oltre a problemi e difficoltà innegabili, che non sono però un’esclusiva del BelPaese, forse questo guardare al futuro sempre a tinte fosche non è realismo impietoso ma ha anche una matrice culturale?
In coda alla classifica, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti
Attento studioso dei nuovi fenomeni sociali, Davide Bennato docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali all’Università di Catania sottolinea a questo proposito l’importanza della cosiddetta Spirale del Silenzio. Una teoria che analizzando il potere persuasivo dei mass media, tv in particolare, gli riconosce la forza di enfatizzare i messaggi prevalenti. In sostanza, un singolo interpellato per un’indagine sarebbe indotto ad allinearsi a quello che è il messaggio che ritiene condiviso dalla maggioranza, in questo caso una prospettiva negativa per il proprio Paese. Difficile confutare il fatto che siano le cattive notizie a dominare nell’informazione quotidiana, rimbalzando da tutto il pianeta. E certo individuare e denunciare problemi, drammi e disservizi è doveroso e sacrosanto. Ma c’è molto altro, in questa esasperata propensione nostrana al pessimismo, che forse alla fine dell’anno, con i buoni propositi per il 2016, dovremmo finalmente affrontare senza timore di impantanarsi in duelli fra gufi e iperottimisti.
Nel Paese che diede i natali a un personaggio capace di coniugare come nessun altro cultura umanistica, scienza e tecnologia, un certo Leonardo, che continua a sfornare oggi straordinari talenti capaci di affrontare con successo le mille sfide dell’innovazione e della conoscenza, combinando competenze diverse, per questo corteggiati e contesi in tutto il mondo, ebbene in questo Paese nel 2015 che volge al termine l’attenzione e l’ammirazione per chi risolve problemi e crea soluzioni è scostante, distratta, infinitamente minore rispetto a quella che si dedica a chi i problemi li denuncia, magari urlando, spesso col dito accusatorio puntato contro qualcun altro, che ha tutte le coppe e a cui spetta trovare soluzioni.
Mentre il mondo dell’innovazione corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione
Mentre il mondo dell’innovazione, da quello delle startup al movimento dei makers, corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione. Con una parte di intellettuali e opinion makers specializzati solo nel criticare e denunciare (compito prezioso, ci mancherebbe) ma spesso del tutto indifferenti, se non diffidenti, nei confronti di chi crea costantemente soluzioni, attraverso nuovi prodotti o nuovi sistemi che migliorano la nostra quotidianità, specie se queste soluzioni sono fuori dagli schemi o contraddicono pregiudizi ideologici. Forse è per questo che nella vetrina dei media chi grida, chi celebra quella che Julio Velasco, allenatore e guru, ha ben definito “cultura degli alibi” (è sempre colpa di qualcun altro”) la fa da protagonista, mentre chi inventa o risolve non merita attenzione.
Questa propensione a veder nero nasconde una crisi profonda e irreversibile. Non dell’Italia, che non è affatto votata a una decadenza senza speranza come troppi sostengono. Ma di modelli culturali attraverso i quali, per troppo tempo, troppe persone hanno interpretato il mondo. E che a mio giudizio stanno franando. Questi modelli sono alla base di quello che negli anni Cinquanta un celebre studio di Edward C. Banfield definì familismo amorale e del quale non ci siamo ancora liberati. L’idea cioè di poter favorire con vantaggi di breve termine i membri della propria cerchia, a scapito degli altri, con l’idea che tutti si comportino allo stesso modo. Uno sperpero che in un mondo sempre più Villaggio Globale non ci possiamo più permettere.
La grande speranza sono i tanti, giovani e non, che hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità
In un Paese che a oltre 150 anni dall’unità ancora fatica a riconoscersi in un’identità condivisa, in valori quali meritocrazia, senso civico e responsabilità individuale, retaggio della cultura protestante, le due matrici culturali principali che permeano la società, quella cristiano cattolica e quella socialista comunista, ci hanno assuefatti a diffidare dell’iniziativa individuale e a privilegiare sempre la fedeltà e l’appartenenza (al circolo, alla parrocchia, al partito, alla corrente) rispetto alle capacità ed al merito individuale. Non sono concetti astratti, quando un imprenditore che considera il suo principale avversario il collega che fa lo stesso lavoro a poca distanza diffida o si oppone al fare squadra o distretto assieme a lui, quando un gruppo di ricerca non condivide i propri risultati con altri e magari ignora cosa facciano i ricercatori del laboratorio a fianco, in un’era in cui la conoscenza è tutta scambio, confronto e interazione.
Sono questi modelli, segnati da una conflittualità assurda e autolesionista (ho chiamato “Sindrome del Palio di Siena” l’abitudine diffusa a realizzarsi nella sconfitta altrui) ad essere in crisi profonda, a spingere alcuni a credere che l’Italia non abbia speranze, e come su un Titanic che affonda, tanto vale assestare l’ultimo schiaffo a quello che ci sta antipatico.
Non è così, la grande speranza sono i tanti, giovani e non, che non cedono a questa penosa deriva, i tantissimi che forti magari di esperienze all’estero hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità. Per non continuare a sperperarla e a veder nero, non c’è da invocare miracoli per raddrizzare la nave. C’è solo da fare una rivoluzione culturale. Con un bel po’ di ottimismo. La iniziamo, in questo 2016? Forse è già iniziata.
Nel 1969, presso l’Università di Stanford (USA), il professor Philip Zimbardo ha condotto un esperimento di psicologia sociale. Lasciò due auto abbandonata in strada, due automobili identiche, la stessa marca, modello e colore. Una l’ ha lasciata nel Bronx, quindi una zona povera e conflittuale di New York ; l’altra a Palo Alto, una zona ricca e tranquilla della California. Due identiche auto abbandonate, due quartieri con popolazioni molto diverse e un team di specialisti in psicologia sociale, a studiare il comportamento delle persone in ciascun sito.
Si è scoperto che l’automobile abbandonata nel Bronx ha cominciato ad essere smantellato in poche ore. Ha perso le ruote, il motore, specchi, la radio, ecc. Tutti i materiali che potevano essere utilizzati sono stati presi, e quelli non utilizzabili sono stati distrutti. Dall’altra parte , l’automobile abbandonata a Palo Alto, è rimasta intatta.
È comune attribuire le cause del crimine alla povertà. Attribuzione nella quale si trovano d’accordo le ideologie più conservatrici (destra e sinistra). Tuttavia, l’esperimento in questione non finì lì: quando la vettura abbandonata nel Bronx fu demolita e quella a Palo Alto dopo una settimana era ancora illesa, i ricercatori decisero di rompere un vetro della vettura a Palo Alto, California. Il risultato fu che scoppiò lo stesso processo, come nel Bronx di New York : furto, violenza e vandalismo ridussero il veicolo nello stesso stato come era accaduto nel Bronx.
Perchè il vetro rotto in una macchina abbandonata in un quartiere presumibilmente sicuro è in grado di provocare un processo criminale?
Non è la povertà, ovviamente ma qualcosa che ha a che fare con la psicologia, col comportamento umano e con le relazioni sociali.
Un vetro rotto in un’auto abbandonata trasmette un senso di deterioramento, di disinteresse, di non curanza, sensazioni di rottura dei codici di convivenza, di assenza di norme, di regole, che tutto è inutile. Ogni nuovo attacco subito dall’auto ribadisce e moltiplicare quell’idea, fino all’escalation di atti, sempre peggiori, incontrollabili, col risultato finale di una violenza irrazionale.
In esperimenti successivi James q. Wilson e George Kelling hanno sviluppato la teoria delle finestre rotte, con la stessa conclusione da un punto di vista criminologico, che la criminalità è più alta nelle aree dove l’incuria, la sporcizia, il disordine e l’abuso sono più alti.
Se si rompe un vetro in una finestra di un edificio e non viene riparato, saranno presto rotti tutti gli altri. Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare a nessuno, allora lì si genererà la criminalità. Se sono tollerati piccoli reati come parcheggio in luogo vietato, superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti, si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi.
Se parchi e altri spazi pubblici sono gradualmente danneggiati e nessuno interviene, questi luoghi saranno abbandonati dalla maggior parte delle persone (che smettono di uscire dalle loro case per paura di bande) e questi stessi spazi lasciati dalla comunità, saranno progressivamente occupato dai criminali.
Gli studiosi hanno risposto in una forma più forte ancora, dichiarando che l’incuria ed il disordine accrescono molti mali sociali e contribuiscono a far degenerare l’ambiente.
A casa, tanto per fare un esempio, se il capofamiglia lascia degradare progressivamente la sua casa, come la mancanza di tinteggiature alle pareti che stanno in pessime condizioni, cattive abitudini di pulizia, proliferazioni di cattive abitudine alimentari, utilizzo di parolacce, mancanza di rispetto tra i membri della famiglia, ecc, ecc, ecc. poi, anche gradualmente, cadranno anche la qualità dei rapporti interpersonali tra i membri della famiglia ed inizieranno a crearsi cattivi rapporti con la società in generale. Forse alcuni, perfino un giorno, entreranno in carcere.
Questa teoria delle finestre rotte può essere un’ipotesi valida a comprendere la degradazione della società e la mancanza di attaccamento ai valori universali, la mancanza di rispetto per l’altro e alle autorità (estorsione e le tangenti) , la degenerazione della società e la corruzioni a tutti i livelli. La mancanza di istruzione e di formazione della cultura sociale, la mancanza di opportunità, generano un paese con finestre rotte, con tante finestre rotte e nessuno sembra disposto a ripararle.
La “teoria delle finestre rotte” è stata applicata per la prima volta alla metà degli anni ottanta nella metropolitana di New York City, che era divenuto il punto più pericoloso della città. Si cominciò combattendo le piccole trasgressioni: graffiti che deterioravano il posto, lo sporco dalle stazioni, ubriachezza tra il pubblico, evasione del pagamento del biglietto, piccoli furti e disturbi. I risultati sono stati evidenti: a partire della correzione delle piccole trasgressioni si è riusciti a fare della Metro un luogo sicuro.
Successivamente, nel 1994, Rudolph Giuliani, sindaco di New York, basandosi sulla teoria delle finestre rotte e l’esperienza della metropolitana, ha promosso una politica di tolleranza zero. La strategia era quella di creare comunità pulite ed ordinate, non permettendo violazioni alle leggi e agli standard della convivenza sociale e civile. Il risultato pratico è stato un enorme abbattimento di tutti i tassi di criminalità a New York City.
La frase “tolleranza zero” suona come una sorta di soluzione autoritaria e repressiva, ma il concetto principale è più prevenzione e promozione di condizioni sociali di sicurezza. Non è questione di violenza ai trasgressori, né manifestazione di arroganza da parte della polizia. Infatti, anche in materia di abuso di autorità, dovrebbe valere la tolleranza zero. Non è tolleranza zero nei confronti della persona cher commette il reato, ma è tolleranza zero di fronte al reato stesso. L’idea è di creare delle comunità pulite, ordinate, rispettose della legge e delle regolei che sono alla base della convivenza umana in modo civile e socialmente accettabile.
È bene di tornare a leggere questa teoria e di diffonderla .
La soluzione a questo problema io non c’è l’ho, caro lettore, ma io ho iniziato a riparare le finestre della mia casa, sto cercando di migliorare le abitudini alimentari della mia famiglia, ho chiesto a tutti i membri della famiglia di evitare di dire parolacce, sopratutto davanti ai nostri figli, inoltre abbiamo deciso di non mentire, di evitare persino le piccole bugie, perché non c’è nessuna piccole bugie,la bugia non è grande o piccola, UNA BUGIA è UNA BUGIA E BASTA
Abbiamo concordato di accettare le conseguenze delle nostre azioni con coraggio e responsabilità, ma soprattutto per dare una buona dose di educazione ai nostri figli.
Con questo ho la speranza di cominciare a cambiare in qualcosa che prima sbagliavo. Il mio sogno è che i miei ripetano tutto questo in modo che un domani i figli dei miei figli o i loro nipoti possano vedere un nuovo mondo, UN MONDO SENZA FINESTRE ROTTE.
SE SEI D’ACCORDO CON LA TEORIA DELLE FINESTRE ROTTE, FAI SEMPLICEMENTE GIRARE QUESTA E-MAIL IN MODO CHE OGNI GIORNO SIANO DI PIU’ QUELLI CHE VOGLIONO DARE UNA MANO AL MIGLIORAMENTO DELLA NOSTRA SOCIETA’.